LA GRISELDA di Antonio Vivaldi – Revisone e interpretazione strumentale: Franco Piva

ANTONIO VVALDI
LA GRISELDA

L’antico mito popolare di Griselda (l’elaborazione più celebre è quella del Boccaccio nel “Decameron”) è molto diffuso nella letteratura occidentale: da Petrarca a Perrault, da Lope De Vega ad Hauptmann.
Il testo di Apostolo Zeno, scritto per il Pollarolo nel 1701, è stato musicato nel secolo XVIII, sempre con diversi rimaneggiamenti, da una quindicina di compositori, fra cui Orlandini, Alessandro Scarlatti, Bononcini, Conti, Caldara, Albinoni, Porpora, Latilla, Piccinni, Paer.
Per l’edizione vivaldiana del 1735 (Venezia, Teatro Grimani di San Samuel, Fiera dell’Ascensione), il testo di Zeno è stato completamente ricomposto da Carlo Goldoni, che dell’originale ha mantenuto soltanto i Recitativi, con tagli e modifiche, scrivendo ex novo tutte le Arie e il Terzetto.
L’Opera è stata eseguita in prima ripresa moderna nel 1979 da Renato Fasano con I Virtuosi di Roma; in seguito è stata approntata una partitura, a cura di Giuseppe Marchetti, che se da un lato riporta il manoscritto originale, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Torino, dall’altro contiene numerosi e non lievi errori e si limita a una impassibile trascrizione senza alcun approfondimento; il basso continuo, poi, è realizzato in modo spesso improprio e sempre con grafia decisamente scolastica.
Quest’Opera, viceversa, presenta dei valori importanti che, pur nel totale rispetto del manoscritto, devono essere adeguatamente evidenziati: per questo ho ritenuto indispensabile procedere a una nuova revisione e realizzare una appropriata interpretazione strumentale.
“La Griselda” contiene, oltre all’Ouverture in tre Movimenti, un solo Recitativo Obbligato (Atto II), un Terzetto (fine Atto II), un breve ‘Coro’ finale e 19 Arie così distribuite: Gualtiero (tenore): 3; Griselda (mezzosoprano): 4; Ottone (soprano): 3; Costanza (soprano): 3; Roberto (mezzosoprano): 4; Corrado (mezzosoprano): 2.
Tutte le Arie sono fortemente caratterizzate in rapporto al testo e alla situazione: questo fatto mi ha convinto della opportunità, se non della necessità ai fini della esaltazione della rappresentatività dei contenuti musicali, di attribuire a ciascuna Aria, nei limiti stilistici consentiti, una impronta timbrica coerente con il carattere del discorso. La partitura originale prevede quasi sempre soltanto il quartetto d’archi; molto spesso, poi, i violini primi e secondi suonano all’unisono: una simile uniformità timbrica non favorisce certo l’efficacia drammatica delle differenti impostazioni. Non solo, invece, esistono all’interno di ciascuna Aria i presupposti musicali e drammaturgici per una adeguata differenziazione timbrica, ma tale differenziazione diventa una necessità se si tiene presente che si tratta di musica scritta per i teatro.
Del resto, una appropriata ‘interpretazione strumentale’ è perfettamente coerente con la prassi esecutiva dell’epoca: la partitura presentata, infatti, costituiva un canovaccio essenziale obbligatorio soggetto ad arricchimenti a seconda delle circostanze, delle possibilità e delle scelte interpretative.
Gli interventi proposti, sempre stilisticamente appropriati, non alterano minimamente la partitura originale: un ‘passo’, per esempio, viene affidato ai flauti o agli oboi, oppure al flauto e all’oboe, soltanto quando i violini primi e secondi suonano all’unisono; viene raddoppiato dai fiati qualche frammento che necessita per la sua rilevanza espressiva di essere messo in particolare rilievo; alcuni frammenti ripetuti vengono presentati in modo concertato fra archi e fiati.
Nella mia versione strumentale, poi, è stata riservata una particolare attenzione al ‘problema’ del Basso continuo: non si può non tener conto del fatto che un eccessivo appesantimento del Basso stesso distorce gli equilibri della partitura. Infatti: il costante raddoppio da parte di Violoncelli, Contrabbassi, clavicembalo e fagotto attribuisce un peso eccessivo al Basso stesso, specialmente quando la sua funzione è soltanto quella di semplice sostegno armonico, e sminuisce gravemente la presenza e l’importanza delle viole, le quali in questa partitura quasi sempre presentano linee autonome; ho ritenuto, quindi, opportuno dosare il peso del Basso e dei raddoppi, in rapporto alle diverse situazioni espressive, e attribuire al clavicembalo una funzione quasi concertante, comunque relativamente indipendente.
Va infine tenuta presente nell’esecuzione la possibilità dell’alternanza fra ‘soli’ e tutti’: tale alternanza è perfettamente legittima sul piano stilistico e risulta molto utile ai fini di una ulteriore precisazione della articolazione del discorso con la creazione di diversi spessori sonori e quindi di rilievi e di prospettive.
Il rispetto rigoroso dei fondamentali principi filologici non deve assolutamente escludere l’altrettanto doveroso rispetto delle necessità rappresentative implicitamente o esplicitamente presenti nella partitura.

Franco Piva

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“ADELAIDE DI BORGOGNA di Pietro Generali – Edizione critica: Franco Piva

PIETRO GENERALI E L’ADELAIDE DI BORGOGNA
Pietro Generali (Vercelli 1773 – Novara 1832) esordì come compositore di musica sacra; ma si volse ben presto al teatro, soprattutto al genere buffo, e raggiunse il successo in molte città italiane.
Soppiantato, però, da Rossini nel favore del pubblico, lasciò l’Italia e, dal 1817 al 1821, fu direttore musicale del Teatro “Santa Cruz” di Barcellona.
Rientrato in patria, fu per un breve periodo a Napoli e poi a Palermo (1823-26) come direttore del teatro Carolino. Nel 1827 accettò il posto di maestro di Cappella della Cattedrale di Novara: tenne tale carica fino alla morte (gli succedette Mercadante), dedicandosi soprattutto all’insegnamento e alla composizione di musica sacra.

“La figura di Generali”, scrive Gian Paolo Minardi, “occupa un ruolo non trascurabile entro quell’area non chiaramente definita che, sullo scorcio del sec. XVIII, concentra i primi presentimenti di cambiamento, quegli intendimenti innovatori che sbucheranno poi con perentoria genialità nell’esplosione rossiniana. Si possono cogliere infatti nell’opera di Generali, musicista che si dedicò soprattutto al genere buffo della farsa e della commedia, alcuni di quegli elementi che Rossini renderà lucidamente e consapevolmente espliciti, come l’irrequietezza e l’imprevedibilità delle modulazioni, una vivacità melodica particolarmente esposta, la spregiudicatezza del segno strumentale…”.
Il periodo fra la fine del Settecento e i primi due decenni dell’Ottocento, per quanto riguarda il teatro musicale, è in buona parte ancora da esplorare. E’ il periodo soprattutto (ci sono anche molti ‘minori’) di Cherubini (1760-1842), di Mayr (1763-1845), di Spontini (1774-1851).
E di Pietro Generali, appunto.
Ma quanto si conoscono Cherubini, Mayr e Spontini? Certamente non quanto basta per una approfondita e completa valutazione della produzione di ciascuno e della reale consistenza e importanza della loro presenza complessiva nella storia del teatro musicale italiano.
Scrive ancora Gian Paolo Minardi: “Non molto significativi invece i tentativi, operati negli anni della maturità, nell’ambito dell’opera seria…”.
Non posso sapere su quali conoscenze dirette si basi quest’ultima affermazione; so per certo, invece, che il Minardi, con questa Adelaide di Borgogna, può essere decisamente smentito.
L’ “Adelaide”, infatti, è un lavoro di grande respiro, di forte impegno musicale e drammaturgico, ricco di interessanti invenzioni, di intensa espressività, di grande varietà ritmica, con un’armonia non poche volte di particolare interesse. Ci sono, poi, da sottolineare tre aspetti particolarmente significativi: 1) in quest’Opera i silenzi diventano elementi drammaturgici ed espressivi fondamentali ed è questa una situazione fortemente innovativa; 2) il Finale dell’Atto primo è di una complessità davvero straordinaria; 3) la partitura è piena di anticipazioni di chiara impronta donizettiana.
A proposito di quest’ultima constatazione c’è da chiedersi: è forse possibile che il Generali abbia conosciuto il donizettiano Enrico di Borgogna? E’ decisamente da escludere, perché l’ “Enrico”
di Donizetti è stato rappresentato a Venezia nel 1818, quando Generali si trovava a Barcellona come direttore musicale del teatro “Santa Cruz”. La conclusione, allora, è una sola: il Generali è arrivato da solo in certe zone espressive che costituiranno una inconfondibile caratteristica dello stile donizettiano. E queste ‘anticipazioni’ sono di non poco conto e comunque molto significative.
Non è possibile stabilire, allo stato attuale delle conoscenze, alcun legame del Generali con Cherubini, Mayr e Spontini.
E con Rossini?
E’ presumibile che Generali abbia ascoltato qualcuna delle Opere che Rossini aveva già prodotto con successo: dal 1810 al 1816; Generali, infatti, era in Italia e in quegli anni di Rossini furono rappresentate ben 17 Opere (La cambiale di matrimonio, Venezia 1810; L’equivoco stravagante, Bologna 1811; L’inganno felice, Venezia 1812; Ciro in Babilonia, Ferrara 1812; Demetrio e Polibio, Roma 1812; La scala di seta, Venezia 1812; La pietra di paragone, Milano 1812; L’occasione fa il ladro, Venezia 1812; Il signor Bruschino, Venezia 1813; Tancredi, Venezia 1813; L’italiana in Algeri, Venezia 1813; Aureliano in Palmira, Milano 1813; Il turco in Italia, Milano 1814; Sigismondo, Venezia 1814; Elisabetta, Regina d’Inghilterra, Napoli 1815); Torvaldo e Dorliska, Roma 1815; Il barbiere di Siviglia, Roma 1816).
Ma fra Rossini e Generali c’era una fortissima rivalità, risolta naturalmente a favore del pesarese, tanto che nel ’17 il Generali, che ‘per colpa’ di Rossini aveva perso il favore del pubblico, se ne va dall’Italia.
Questa rivalità poteva portare per Generali o a un sostanziale assorbimento dello stile rossiniano, per dimostrare la sua non inferiorità, oppure all’adozione di uno stile almeno parzialmente diverso per affermare la propria autonomia e originalità.
Non conoscendo le Opere buffe del Generali non posso dire quale delle due ipotesi sia più giusta. Conosciamo ora, però, quest’Opera seria e da questa diretta conoscenza si può dedurre che egli adotta un proprio stile, costruito con ricerche almeno parzialmente autonome, anche se non era evidentemente possibile prescindere completamente dalle tendenze e dalle manifestazioni del linguaggio musicale allora corrente e più o meno noto (non va, in particolare, taciuto il fatto che, all’epoca dell’Adelaide, Beethoven aveva già scritto, fra l’altro, otto Sinfonie e Schubert aveva già composto alcuni Singspiel, sei Sinfonie, molta musica strumentale e molti Lieder).
Gli elementi più evidenti di una (indiretta?) presenza rossiniana sono soprattutto due: i virtuosismi dei solisti, piuttosto frequenti ed estesi (ma questi sono anche residui dell’Opera seria settecentesca), e il crescendo, di cui alcuni attribuiscono l’invenzione proprio al Generali (così è scritto sulla lapide del suo monumento funebre).
Credo comunque che si tratti di percorsi sostanzialmente paralleli, naturalmente con maggiore o minore incisività, originalità, senso del teatro.
C’è, però, da sottolineare il fatto che il Generali comincia a scrivere Opere buffe nel 1800 (la sua prima Opera è Gli amanti ridicoli, su libretto di Antonio Galuppi, figlio di Baldassarre), e cioè ben dieci anni prima della prima Opera rappresentata di Rossini (La cambiale di matrimonio, 1810); e fino al 1810 compreso, di Generali vengono rappresentate in diverse città italiane (Roma, Bologna, Parma, Venezia, Milano, Napoli, Firenze) ben 23 Opere tutte buffe (la prima seria è del 1812: Attila). Verrebbe quasi da pensare che sia stato Rossini, che aveva seguito i genitori nei vari teatri (accanto al padre che suonava in orchestra mentre la madre cantava) a ricevere ‘suggerimenti’ e suggestioni da Generali: è un’ipotesi difficilmente dimostrabile, ma forse non del tutto infondata.
Di Rossini nel 1817, esattamente il 27 dicembre, viene rappresentata a Roma, al Teatro Argentina, Adelaide di Borgogna ossia Ottone Re d’Italia, Opera seria in due Atti su libretto di G. Schmidt: ma è da escludere che Generali abbia potuto ascoltarla, dato che si trovava già a Barcellona (il libretto della sua Adelaide è di Luigi Romanelli).
Il manoscritto autografo dell’ Adelaide di Borgogna, di ben 300 fogli doppi, è custodito presso l’Archivio Ricordi.
La grafia, salvo qualche battuta di tanto in tanto, è in generale sufficientemente chiara, precisa e completa. Naturalmente ho rigorosamente rispettato tutte le indicazioni dell’autore, limitandomi a correggere alcuni evidenti errori e, dove necessario, a completare e/o a precisare le indicazioni dinamiche (ogni mio intervento è segnalato, descritto e giustificato nelle note critiche che accompagnano la partitura).
Mi sono trovato davanti un solo problema, per altro assai delicato. All’inizio dell’episodio conclusivo del Finale dell’Atto primo, il Generali scrive in partitura: Ob. Cl. Fl. Fag. Trombe e Tromboni nella partiturina in fine. Purtroppo, però, questa ‘partiturina’, nonostante le accurate ricerche, non è stata trovata. Ho dovuto, quindi, comporre le parti strumentali mancanti, ovviamente cercando di uniformare tutti gli interventi alla impostazione stilistica verificata.

Franco Piva

Recensione della prima ripresa moderna (Rovigo, Teatro Sociale, 17 marzo 2012) su teatro.org
Nel 1819 apriva a Rovigo il teatro Sociale e la municipalità rodigina commissionava a un compositore in voga all’epoca un’opera che inaugurasse questo nuovo tempio della musica in territorio ormai austriaco. Il compositore era Pietro Generali, un nome che, al giorno d’oggi, dice ben poco anche ai melomani più convinti, ma che nei primi trent’anni dell’Ottocento riscosse grande successo di pubblico e che ebbe la cattiva sorte ( come molti validi musicisti) di essere surclassato da nomi ancora oggi famosi (Generali fu infatti un grande rivale di Rossini e l’enorme successo di quest’ultimo lo portò a emigrare dall’Italia).
Generali nacque a Vercelli nel 1773 e dopo un periodo come compositore di sola musica sacra si dedicò all’opera lirica. Il successo lo portò a comporre opere per i principali teatri italiani ed europei, lavorando specialmente per Venezia e Napoli e morendo a Novara nel 1832.
Generali compose ben 56 opere (vivente lui, vennero rappresentate in tutti i teatri del mondo, perfino in Messico e in India!), nonché svariate Cantate e numerosa musica sacra. I suoi primi lavori sono considerati moderni e stravaganti nel loro vigore, presentano una ricca orchestrazione e un’inusuale ricchezza armonica. Invece le sue ultime opere, come anche quelle di molti altri compositori suoi coevi, appaiono come palese imitazioni di quelle di Rossini. Egli era solito usare effetti drammatici nella sua musica, come il suo crescendo d’orchestra, del quale Rossini stesso in seguito si avvalse.

Adelaide di Borgogna è un’opera seria in due Atti su libretto di Felice Romanelli. La vicenda, tratta dalla storia dell’Italia alto-medioevale, è ambientata nel 947, quando Adelaide di Borgogna rimane vedova del re Lotario II, per mano di Berengario d’Ivrea. Quest’ultimo, nominato nuovo Re d’Italia dall’assemblea dei Principi, per sigillare meglio la sua consacrazione pretende la mano di Adelaide per il figlio Adalberto. Il suo costante rifiuto la portò alle vessazioni e al rapimento da parte dell’innamorato Adalberto, finchè l’imperatore Ottone I, giunto in Italia, sconfigge Adalberto, libera Adelaide e la sposa.
Questa è un’opera di grande respiro, di forte impegno musicale e drammaturgico, ricca di grande espressività e invenzione e di forti richiami donizettiani; bella e avvincente la musica, con motivi molto originali specialmente nel primo atto; il secondo, invece, è più classicheggiante e ricorda molto diverse opere coeve.
Il teatro Sociale l’ha proposta in forma di concerto con la prima ripresa assoluta in tempi moderni, in collaborazione con il Teatro Sperimentale di Spoleto.
Questo allestimento è anche un prezioso lavoro frutto di uno studio approfondito degli autografi da parte del maestro Franco Piva, che ne ha curato una importantissima edizione critica portata a nuova stampa proprio per l’occasione dalla casa editrice Ricordi. Grande il lavoro del maestro Piva che ha ridato lucentezza a questa partitura dimenticata negli archi Ricordi. Si è trattato di un evento storico, musicale e culturale unico, di grande rilievo. Storicamente, Rovigo e il suo teatro hanno riportato alla luce, con questa operazione, il primo e significativo tassello, il punto di partenza di una attività artistica che non ha mai subito cedimenti, anzi, si è sempre più articolata e amplificata in 197 anni.
Da Spoleto arrivano i cantanti, selezionati tra le giovani promesse del canto, vincitori di vari premi musicali, soprattutto del concorso europeo per giovani cantanti lirici indetto dal Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto: Nel ruolo del titolo il soprano Anna Carbonera ha dato prova di una bella voce corposa e matura, con tecnica efficace, acuti contenuti ma espressivi. Il mezzosoprano Katarzyna Otczyk, nella parte en travesti di Adalberto, è dotata di una voce molto potente, con delle sfumature quasi metalliche, ma corposa e sicura; dopo un inizio un po’ incerto, è entrata pienamente nel ruolo; emozionante il suo duetto con la Carbonera nel secondo atto.. Gianluca Bocchino ha interpretato Ottone I…, ruolo che il tenore sannita ha saputo portare a termine con grande partecipazione. Il giovane baritono Daniele Antonangeli è stato un Berengario più che convincente, con una bella voce calda e rotonda, con acuti ponderati e bassi sicuri. Walter Testolin in Corrado ha mostrato una grande tecnica e una bella voce, forse più adatta ad un repertorio barocco, ma ha affrontato il ruolo egregiamente. Bravi anche Roberto Cresca in Rambaldo e Elisa Fortunati in Clotilde (purtroppo ruolo molto piccolo per una bella voce).
Il maestro Franco Piva è stato eccezionale alla guida dell’orchestra Regionale Filarmonia Veneta: la sua lettura filologica ha permesso di riscoprire queste pagine dense di melodie cariche di espressività preromantica.
Il Coro polifonico Città di Rovigo, diretto dal maestro Vittorio Zanon, è stato molto valido nel sostenere quest’opera che vede molte parti corali dense di pathos.
Ancora encomiabile il lavoro di recupero di questo lavoro dimenticato; le belle pagine che abbiamo ascoltato fanno riflettere di quante opere straordinarie si siano perse le tracce a favore di una programmazione sempre più standardizzata…

Mirko Bertolini (www.teatro.org)

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IL DIVERTIMENTO DEI NUMI di Giovanni Paisiello (Revisione: Franco Piva)

GIOVANNI PAISIELLO
IL DIVERTIMENTO DEI NUMI

IDEA DELL’AZIONE
Giove, per sollevarsi un momento dalle pesanti cure dell’Universo, e per divertire i Numi, rapisce dal Mondo, e trasporta ne’ Campi Elisi tre mortali, una donna, e due uomini, ed aspergendoli delle acque di Lete, fa questi di loro stessi dimenticare; e trasformandogli in tre Numi, alla donna, che ha nome Annella, dà gli abiti di Venere: al primo di quegli, chiamato Ciccotonno, dà il proprio vestir di Giove: ed al secondo, nominato D. Taddeo, dà le vesti di Marte, e fa che questi realmente si credano tra loro quelle Deità, di cui non hanno in fatti, che la sola maschera.
Questi, a somiglianza della gatta di Esopo trasmutata in bella donna, dimostrando, che se ben talora si cangia figura, non si cangia natura, formano negli Elisi il breve, e semplice intreccio di una ridicola, ma temeraria rivalità, colla quale fanno ben comprendere, che in loro si camgiò solamente l’aspetto, ma non la viltà nel costume.
Contento Giove del piacer preso, e del breve divertimento dato a’ Numi colle scempiaggini di costoro, così della bella Venere, che dal vero Marte corteggiato, gli si fa nel suo real trono improvvisamente vedere: gli restituisce alla prima loro figura, e gli destina a vagare per le arsicce arene di Acheronte; ma vinto ultimamente dfalle preghiere di questi, e più dalla sua propria inesausta pietà, per grazia, ne’ Campi Elisi gli trattiene. Dal che si può presumere, che voglia Giove in sì fatta guisa sollevarsi altre volte, e divertire da tempo in tempo anche i Numi, per rendergli, dopo qualche riposo, valevoli maggiormente al Ministero loro.

UNO SCHERZO SERIOSO, di Franco Piva
Giovanni Paisiello è uno di quegli autori importanti che tutti di nome conoscono benissimo ma che pochi hanno avuto la possibilità di avvicinare.
Della sua ricchissima produzione teatrale (una cinquantina di Opere giocose e una trentina di Opere serie) si conosce, si fa per dire, soltanto una piccola parte; per non parlare della musica sacra e di quella strumentale, quest’ultima in alcuni casi bistrattata a livello di revisione e/o di interpretazione.
Stando ai riferimenti cronologici riportati nei dizionari, la sua produzione va dal 1764 al 1808
(‘Il Divertimento dei Numi’ è del 1774): quasi mezzo secolo. Un periodo, questo, densissimo di avvenimenti, musicali e non, di grandissima importanza.
Ne ‘Il Divertimento dei Numi’, in poco più di un’ora di musica, si passa attraverso molte punte espressive diverse: dalla leziosità ironica dell’Aria di Marte “Piccioncino innamorato” alla densa e tesa concitazione di alcuni interventi del doppio coro; dall’intensa contabilità delle Arie di Venere all’eleganza giocosa del Terzetto finale.
L’equilibrio esistente fra i diversi aspetti della dimensione sentimentale e di quella ironica nel Dramma giocoso per musica ora si stempera e si articola in una grande varietà di situazioni che abbracciano spazi espressivi più larghi e aspetti particolari che stanno al di fuori dello stile galante e quindi dello stile giocoso.
Il frequente uso del coro (sei numeri, oltre a una ripetizione, sui quindici complessivi) e la presenza di ben tre Recitativi Obbligati, due dei quali di particolare consistenza, attribuiscono a questo ‘Scherzo’ una complessità musicale e drammaturgia di grande rilievo e interesse.
All’interno, poi, di ciascun brano esistono, generalmente, una stimolante varietà di atteggiamenti espressivi, che denota una intensa e appropriata ricerca linguistica, una notevole gamma timbrica (di particolare rilievo la valorizzazione solistica del fagotto e in taluni casi l’autonomia delle viole) e una forte e continua differenziazione dinamica.

La revisione
Ho lavorato direttamente sull’autografo della partitura proveniente dalla Biblioteca del Conservatorio di Napoli.
La grafia è generalmente abbastanza chiara; ho incontrato, tuttavia, alcuni problemi piuttosto delicati.
Il primo riguarda la presenza di un’Aria autografa del tutto estranea al libretto: si doveva riportare questo ‘corpo estraneo’, evidentemente inserito per accontentare un interprete, oppure bisognava ricondurre il lavoro alla struttura originaria rispetto al libretto e lla corrispondente concezione compositiva, liberandolo da quella che oggettivamente risulta una contaminazione (l’Aria proviene chiaramente, anche per l’evidente diversità stilistica, da un’altra Opera: il testo originario, infatti, è spesso tagliato e sostituito dallo stesso Paisiello con parole meno estranee all’argomento del Divertimento dei Numi)?
Ho preferito la seconda soluzione. Mentre, quindi, la partitura di Napoli contiene sedici numeri, la mia revisione ne prevede quindici.
Il secondo problema è nato a seguito della presenza di numerose cancellature: nella maggior parte dei casi gruppi più o meno consistenti di battute sono coperti con pezzi di carta incollati sopra i passi da togliere (il tipo di carta prova che si tratta di un’operazione fatta allora) e in alcuni altri casi ci sono tagli normali sopra le note comunque visibili. Quasi sempre, però, la situazione che precede immediatamente le parti coperte o quelle tagliate non si aggancia perfettamente con quella che le segue: sono stati, quindi, necessari i conseguenti aggiustamenti.
Inoltre: A) nell’Introduzione alcune battute sono state inspiegabilmente tagliate (dico ‘inspiegabilmente’ perché in effetti le battute tagliate risultano indispensabili all’equilibrio del discorso, anche in rapporto all’analoga situazione nella prima parte dell’Ouverture): ho ritenuto opportuno ripristinarle. B) Fra il n. 2 (‘Coro di Geni’) e il n. 3 (Recitativo Obbligato di Giove) mancano nell’autografo due facciate, una con la conclusione della ripresa del Coro, l’altra con l’inizio del Recitativo secco seguente: la conclusione del Coro, trattandosi di una ripresa, non presentava problemi; è stato, invece, necessario riscrivere la parte mancante del Recitativo, poiché, essendo questo all’inizio dell’azione, la sua omissione poteva compromettere la chiarezza della narrazione. C) Nel Recitativo secco tra il n. 7 (‘Coro delle Furie’) e il n. 8 (Cavatina di Venere) c’è nell’autografo un testo dialettale, difficilmente decifrabile, diverso da quello del libretto. D) La ripresa conclusiva del ‘Coro dei Geni ‘(n. 13) è nell’autografo soltanto parziale, con contrazioni che deformano in parte l’equilibrio originario: ho preferito la ripresa integrale.

Franco Piva

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