Gaetano DONIZETTI, ELVIDA (revisione: Franco Piva)

DONIZETTI, ELVIDA

Un’eroina da resistenza e riconquista è la protagonista dell’Elvida di Donizetti, opera giovanile breve e bella finalmente riportata alla luce.
Non è vero che l’opera seria del Settecento fosse d’argomento soprattutto mitologico, e a dimostrarlo sono i prediletti testi letterari del Metastasio che a personaggi come Agamennone, Ulisse, Medea e Ifigenia preferiscono Demetrio, Ciro, Semiramide, Nitteti; né è del tutto vero che il melodramma dell’Ottocento prediligesse le antiche storie europee d’ambiente cavalleresco, visto il successo ivi incontrato da drammaturghi come Shakespeare, Schiller e Hugo. E se l’esotismo, sia tematico che musicale, doveva trionfare nel tardo Ottocento, dopo l’Africaine di Meyerbeer e l’Aida di Verdi con i capolavori di Saint-Saens, Massenet, Puccini e così via, non per questo era ignorato prima: i citati eroi metastasi ani sono principi e regine di Persia, Siria, Assiria, Egitto; le turcherie abbondano nei libretti di Gluck, Mozart, Cherubini, Rossini; e il Ricciardo e Zoraide di Rossini, la Zaira di Bellini, la Schiava in Bagdad di Pacini, la Schiava saracena di Mercadante sono solo alcuni episodi della straordinaria fortuna goduta dai soggetti esotici dalla metà dl XVIII alla metà del XIX secolo. Spesso era qualche protagonista europeo che si recava in Oriente o in Africa, spesso erano eserciti o gruppi di arabi o normanni che assediavano qualche città d’Europa, e molto spesso erano i mori della lunghissima dominazione spagnola e gli spagnoli dell’epica riconquista a battagliare senza tregua ed esclusione di colpi, oviamente con il sale e il pepe di un rapporto amoroso fra una damigella bianca e un guerriero d’altra razza (o anche il contrario, o anche un amore tra famiglie arabe nemiche).
In un panorama del genere, un operista fecondo come Gaetano Donizetti (1797-1848) non poté che farsi valere da par suo: nell’abbondante settantina di opere di un catalogo dall’estensione all’incirca venticinquennale la Zoraide di Granata data al 1822, l’Alahor in Granata e l’Elvida al ’26, la Sancia di Castiglia al ’32, il Dom Sebastien de Portugal al 1843 (per tacere della Alina di Golconda e il Paria dell’India o di altri esotismi, slavi, nordici e occidentali).
Il 1832 è l’anno benedetto dell’Elisir d’amore, il 1843 è l’anno provvido del Don Pasquale, e fu nel loro intervallo che Donizetti produsse opere come Lucrezia Borgia, Lucia di Lammermoor, Roberto Devereux, Poliuto, La favorita, Linda di Chamounix, capolavori dovuti a un’arte già del tutto personale e una tecnica ormai affrancata dagli imperanti modelli rossiniani. In precedenza, mentre il collega e coetaneo Bellini, più astuto e selettivo, riusciva a raggiungere l’affrancamento con il Pirata del ’27, Donizetti lavorava con tenacia ed entusiasmo, con disponibilità e versatilità, con tanta devozione per la monumentale drammaturgia rossiniana quanta attenzione per le esigenze, anzi meglio per le convenienze e inconvenienze teatrali (comer avrebbe intitolato una sua opera napoletana di poco successiva a quella milanese del collega) imperanti anche senza Rossini. Il 6 luglio del 1826, per esempio, si doveva celebrare il compleanno di Maria Isabella di Spagna, moglie di Francesco I di Napoli, e il S. Carlo di Napoli intese provvedere non con una grande opera seria in tre atti ma sia con un’opera che con un ballo: siccome questo fu L’ira di Achille, lungo “ballo eroico-mitologico in sei atti”, quella dovette essere un’opera breve, un atto unico, e fu l’Elvida di Giovanni Schmidt, il “poeta de’ reali teatri” che alle spalle aveva parecchi libretti e un libretto un po’ speciale come l’Elisabetta regina d’Inghilterra che undici anni prima aveva segnato l’esordio e il successo napoletano di Rossini (speciale, quel testo, perché veloce, sintetico, senza troppe arie, didascalie, frange perditempo, e presagio di altre brevità come appunto questa). In quel di Napoli, nel giugno del 1826 Donizetti mise in scena il comico Don Gregorio, rifacimento e ampliamento del romano Ajo nell’imbarazzo, al S. Carlo e al Nuovo l’Alahor in Granata nato a Palermo nel gennaio; e fece le prove di Elvida, sempre con “quattrini pochi, fatica assai, pazienza”, sicuro che “se onore avrò molto, sarò ben pagato”.
Ancora dall’epistolario: “Lunedì proveremo l’Elvida in un atto. Non è gran cosa a dir la verità, ma se li colgo colla cavatina di Rubini ed il quartetto mi basta. Già in sere di gala poco vi si bada” (a Mayr il 15 giugno). “Ai 6 di luglio a S. Carlo ho dato l’opera in un atto l’Elvida, e fui applaudito dal re, dalla regina e la seconda sera chiamato fuori con Rubini, la Lalande e tutti gli altri (al padre il 21 luglio). L’opera, che ebbe tre repliche e fruttò all’autore 200 ducati in quanto nuova (contro i 40 del Don Gregorio e lo splendido nulla di Alahor in Granata), fu recensita dal Giornale del Regno delle Due Sicilie: un “argomento sfornito di ogni storico fondamento per un dramma in musica brevissimo” era particolarmente difficile, ma l’anziano e buon poeta vi aveva saputo mettere in rilievo “quella nobiltà ed altezza d’animo che ha sempre contraddistinto gli spagnuoli, e ch’eccelsamente risplende nell’Augusta Nostra Regina congiunta a tante altre belle virtù che l’adornano”; e la musica, pur senza comprendere “alcun pezzo che ci avesse o fortemente sorpreso, o profondamente commosso” era risultata “sparsa di graziosi motivi e condotta con quella regolarità che caratterizza la scuola del Mayr”, in particolare con la punta inventiva dell’aria della primadonna. La Tipogafia Flautina stampò il libretto, secondo l’uso; e nessuna edizione ebbe la musica, che secondo l’uso rimase manoscritta (la biblioteca di S. Pietro a Majella conserva la partitura autografa e una copia d’altra mano).
Dramma per musica in un atto, Elvida è una breve “azione drammatica” che proprio “non ha nulla di storico” come precisa l’”argomento” del libretto, e proprio in questa dichiarazione negativa segnala qualche suo elemento specifico: intanto non si accontenta di romanzare la storia, come per esempio aveva fatto la Clemenza di Tito di Mozart e avrebbe fatto l’Ernani di Verdi, e poi non si ispira ad alcun dramma, romanzetto, testo altrui e precedente, inventando tutto, quasi quasi preferendo il verosimile al vero (ma con tali formule di altezza manzoniana e verdiana la cautela non è mai troppa); e questo, forse, non tanto per esibire qualche forma di orgoglio creativo quanto per aver via libera a sceneggiare una vicenda semplice, diretta, disadorna, insomma un torso di dramma piuttosto che un dramma articolato e allargato in parti ed episodi. Nuda e cruda, la vicenda ambientata nel Medioevo spagnolo prevede un tiranno che tiene prigioniera la sua vittima femminile, nonostante l’amore a lei rivolto dal figlio di lui, e un eroe ricambiato che libera la fidanzata e perdona gli altri, all’interno di una rocca moresca poi espugnata dagli spagnoli, con appena altri due personaggi e un cambio di scena (in fondo, quasi come un prologo vocale e appena scenico anteposto a un’azione, a un grande ballo comprensivo di molti atti, personaggi, luoghi). Fedele alla consegna, Donizetti non compose nemmeno una sinfonia o un preludio e accettò la parsimonia del recitativo; e nel manoscritto non lasciò documento dell’aria del tenore, quella destinata a Rubini con la quale contava di piacere al pubblico, perché non ebbe tempo di comporla e quindi ne cassò l’occasione oppure, forse, perché seguendo la prassi della parodia, dell’autoimprestito e del “baule”, non compose nulla di nuovo e lasciò che il divo Rubini interpolasse un’aria di suo gradimento (certo anche sua, sua dll’autore). Non pertanto il ventinovenne musicista si consegnò anima e corpo alla maniera, al rossinismo, allo stile del suo maestro Mayr; e di fatto schizzò una partiturina limpida e accurata, sempre consona alla personalità dei contanti e mai dimentica del bello scrivere, della giusta condotta delle parti, del canto classico, dell’invenzione melodica.
Nel regno di Granata (ovvero Granada), presumibilmente negli ultimi tempi della cosiddetta Reconquista (terminata nel 1492, lo stesso anno della scoperta dell’America), la piazzaforte raccoglie parecchi mori frettolosi, che come sempre raccontano un po’ l’antefatto. Dopo cinque battute di Larghetto, scattando in Allegro il coro maschile canta “Tutto cede al nemico feroce”, con un gioco polifonico già evidente fra i primi e i secondi tenori e un Do min. che vorrà segnalare il pericolo, la minaccia dell’esercito spagnolo “che veloce alle mura s’avanza”. Mentre loro si disperdono, ecco Amur (basso) e Zeidar (contralto), il tiranno-padre e il figlio-amante: al posto delle due prevedibili cavatine consecutive la brevità ha consigliato un duetto, nel corso del quale i due personaggi si illustrano nella massima schiettezza ed elementarità. “Non più: dicesti assai” esclama Amur, senz’ombra di recitativo e avviandosi declamatorio sopra un’orchestra punteggiata di semicrome alla maniera rossiniana; Zeidar prosegue il Moderato in Fa magg. Ma muta sensibilmente il disegno vocale (con un trillo su “rigor” dove il padre aveva trillato su “amor”, in sede finale di quartina); il raccordo è veloce (già in odore di cabaletta) e la cabaletta è lesta, Allegro in Fa magg. Squillante e sillabico sui versi “Omai tant’orgoglio” e “Ti sento mio core” che il testo prevede simultanei ma la musica rende tali solo alla fine (a mo’ di stretta vera e propria). Amur vuole punire la prigioniera amata da Zeidar, la quale compare in scena con una scorta di donne e canta una cavatina, l’unica aria dell’opera (così come sta) e giustamente assegnata alla protagonista titolare dell’opera: neanche il soprano esordisce con recitativo, e attacca subito “A che mi vuoi? Che brami?”, un Maestoso in La magg. Zeppo di scalette e notine che accoglie qualche intervento delle altre due voci (i cosiddetti pertichini) e del coro; a seguire forse il poeta immaginava un terzettino con coro, come immaginava che la quartina di sortita fosse un semplice recitativo accompagnato, ma il musicista optò per una cabaletta, e questa è l’Allegro “Le smanie io sento in petto” ancora in La mgg. Sillabico o bisillabico che s’agghinda del temibile trillo “cresciuto” (7 trilli consecutivi per semitoni sulla parola “tremar”) e solo più tardi s’impingua delle altre voci soliste e coriste. La scena, più o meno definibile come aria lievitata ad assieme o anche terzetto privilegiante una voce, conferma l’aperta ostilità fra un tiranno sordo al figlio stesso e una vittima tanto energica da ignorare lo sfogo della cantabilità. Il nemico incombe, Amur corre ai ripari, Zeidar resta e intreccia un duetto con l’amata Elvida: la bramata cantabilità, eccola nel Larghetto del contralto, “Se geme a’ tuoi lai…”, un vago 6/8 d’attacco acefalo che scende, sale, riscende languidamente e quando passa al soprano, “Mia colpa, tel giuro”, allarga gli intervalli comprendendo un salto d’ottava; il tempo di mezzo prosegue il cantabile quasi senza soluzione, e la stretta, l’Allegro “Sì grave è il tormento” che conferma la tonalità di Mi bem. Magg., estende l’identità del testo a un canto parallelo, alla distanza regolare di una terza, senza virtuosismi ma con una bella impennata al Si bem. Acuto del soprano (sulla dominante, verso la fine).
Finita un’ipotetica prima parte, una seconda parte s’apre sulla piazza. “Le catapulte finiscono di smantellare le mura”, i mori se la danno a gambe, gli spagnoli irrompono, il coro dovrebbe cantare “Cinto di nuovi allori”; anche il tenore Alfonso dovrebbe cantare, la cavatina “Cara immagin del mio bene” presente nel libretto, ma nella partitura passa subito a informarsi della condizione di Elvida (nel corso di un recitativo breve ma pregnante, anche per la comprimaria Zulma). L’”orrida spelonca” della scena che segue è la prigione di Elvida: sola e disperata, introdotta da un preludio a mo’ di concertino brillante, la donna si lamenta esprimendosi in pretto stile recitativo-arioso e finendo con un vocalizzo sulla parola “speranza” che in un’opera lunga presupporrebbe un’aria ma qui dà spazio alle voci di Amur e Zeidar pronte a un terzetto. “Invan, superba, invano” comincia il basso in Allegro non molto, passeggiando nella maniera tipica di Luigi Lablache, “Quel ferro tuo m’uccida” prosegue il soprano nella maniera declamatoria tipica di Henriette Méric-Lalande, “Amato genitore” continua il contralto in tutta la pastosa centralità della sua voce (affidata a Brigida Lorenzani), senza che mai le tre voci s’uniscano; e dxopo, durante la stretta che nella simultaneità delle voci ha sempre un’arma efficace, Elvida e Zeidar cantano insieme e parallelamente (a una terza) mentre Amur grida e protesta per conto suo. Qualche semplice battuta d’orchestra sottintende l’irruzione di Alfonso coi suoi soldati (senz’affatto l’”improvviso strepito” suggerito dal libretto) e il terzetto diventa quartetto con Amur che minaccia di ferire Elvida e Alfonso che lo prega. Dopo un momenrto di stupore, il tenore attacca “Deh! Ti placa…Amur mi rendi”, un bell’Adagio in La bem. Magg e 12/8 che non tarda ad alzare la voce (destinata all’ugola acutissima di Giambattista Rubini) e quando raggiunge le altre voci provvede a differenziarsi adeguatamente, comunque accoppiando i due aspri contendenti (tenore e basso) e gemellando i due personaggi al momento passivi (soprano e contralto). A liberare Elvida chi sarà, se non Zeidar? Detto fatto, Amur viene catturato e il bel quartetto ha modo di passare alla stretta: vigoroso Allegro in Fa magg. E tempo tagliato, L’empio cor che chiudi in petto” è il canto iniziale, unisono, ascendente e trocaico dei due amanti che si ritrovano, cui poi s’aggiunge quello dei due nemici fino a un’efficace serie di battute di quarti e pause di quarto e a una svettante volatina del soprano protagonista.
Come in ofgni opera seria di concezione classica o classicheggiante (cioè non ancora romantica), il lieto fine è presto (ma nel 1826 era presto anche il Pirata di Bellini che avrebbe sancito la regolarità romantica del finale funesto, poi adottato da Donizetti con piena soddisfazione). Scongiurato il danno la prigione non è più il contenitore del massimo rischio, come avviene nel sommo Fidelio di Beethoven e in tante opere serie o semiserie del primo Ottocento, ma la scena non cambia: l’essenzialità di Schmidt non ne allontana l’azione e prescrive un duetto con coro, un duetto perché un’aria avrebbe squilibrato assai l’opera breve e il coro perché la letizia finale doveva sempre essere drammaticamente completa e musicalmente ben sonora. “Il cielo, in pria sdegnato / si mostra alfin placato”, cantano Alfonso ed Elvida in Moderato e Sol magg., scattanti di ritmi puntati, acuto lui e centro-grave lei, entrambi impegnati in deliziosi gruppetti “sui vanni dell’amor” e in terzine su terzine, accortamente ma parcamente cadenzati dal coro giubilante. E finalmente l’animosa, vibrante, romantica Elvida smette di essere un’eroina della resistenza e della riconquista spagnola per tornare a esprimersi con i giusti mezzi dello stile classico, del belcanto, della melodia, del Donizetti più limpido e naturale e mayriano.
Piero Miolij

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Baldassarre GALUPPI, IL MONDO DELLA LUNA (rev.e interpretazione strumentale: FRANCO PIVA

Baldassarre GALUPPI, IL MONDO DELLA LUNA
(revisione e interpretazione strumentale. FRANCO PIVA

A) Il libretto goldoniano

Eclittico, finto astrologo, commenta divertito e compiaciuto con quattro scolari la sua abilità nell’imbrogliare quei che poco sanno per natura.
Entra il credulone Buonafede e nasce un vivace e colorito dialogo sui misteri della luna e dell’universo e sui miracoli di un grande cannocchiale, con il quale Eclittico dice di vedere sulla luna perfino spogliar le donne quando vanno a letto.
Buonafede si è convinto (quando Eclittico accosta alla cima del cannocchiale una macchina illuminata dentro la quale si muovono alcune figure, egli crede che quelle gustose scenette si svolgano sulla luna) ed Eclittico, innamorato di Clarice, spiega agli amici Ernesto, innamorato di Flaminia, e Cecco, innamorato di Lisetta, cone riuscirà a burlare Buonafede e a ottenere il sospirato consenso per i tre matrimoni.
Dopo la presentazione della dolce e remissiva Flaminia, della nervosa e ribelle Clarice e della vivace Lisetta, invano corteggiata dal maturo Buonafede, viene messa in atto la burla: Eclittico fa credere a Buonafede di essere stato chiamato sulla luna; Buonafede vuole a tutti i costi seguirlo: beve un sonnifero e crede di volare…
Quando si risveglia, le ‘stravaganze’ inventate da Eclittico gli fanno credere di trovarsi in un altro mondo; Cecco, con Ernesto, avanza sopra un carro trionfale e Lisetta diventa imperatrice del mondo lunare. L’abilità di Eclittico e le illusioni dell’ambiente (tutti approfittano per sottolineare le contraddizioni del mondo terrestre tutte felicemente risolte sulla luna) convincono Buonafede a benedire i matrimoni.

Il 1750 è per Goldoni un anno fecondissimo, quasi frenetico: sono, infatti, ben cinque i libretti composti (Il mondo della luna, Arcifanfano re de’ matti, Il mondo alla roversa, Il paese della cuccagna, La mascherata) e nascono le commedie, nelle quali si viene precisando il suo programma poetico proteso verso il realismo delle vicende e dei caratteri: anche i libretti per musica risentono evidentemente di questa nuova impostazione, per cui si può senz’altro parlare di una sostanziale riforma goldoniana, realizzata naturalmente in modo più leggero, anche per i libretti.
Scrive Giorgio Pestelli: “Il nome di Carlo Goldoni è un nodo importante del fenomeno di maturazione dell’opera buffa…: egli dà un impulso decisivo alla umanizzazione dell’opera buffa oltre gli stereotipi modelli dell’intermezzo. Certo, equivoci e travestimenti sono pur sempre alla base convenuta della struttura drammatica, e nei libretti i caratteri dei personaggi non potranno avere la profondità di realizzazione delle grandi commedie teatrali; ma se attorno ai gracili tronchi della farsa e dell’intermezzo la vicenda si amplia in un respiro di commedia musicale è perché sempre più entrano nei suoi libretti le idee del tempo: la Natura madre e guida; le varie mode del patriziato e della borghesia di Venezia, il gusto dell’esotico…; una certa malizia in tutta la sfera erotica; una presenza nuova delle arti e dei mestieri; un interesse per la campagna da lavorare…
E Piero Santi precisa: … Questi primi melodrammi, che Goldoni si vantava di tirar giù in non più di quattro giorni e ai quali non annetteva nessuna importanza letteraria…ottemperavano tuttora alla funzione cui lo spettacolo musicale era tradizionalmente addetto nei teatri veneziani, della festa più o meno carnevalesca…Così il mondo della luna non è che il mondo della terra, vale a dire della società veneziana, contemplata nella sua totalità morale dalla lontananza di una metafora spettacolare…Siamo di fronte a un gioco allo stato puro.

B) La partitura

La partitura contiene:
- l’Ouverture (Allegro, Andante, Allegro)
- 2 Cori: Coro di Scolari, Atto I; Finale
- 3 Cavatine: Ho veduto una ragazza, Ho veduto un buon marito, ho veduto dall’amante (Buonafede, Atto I, Scena III)
- 5 Arie senza Da capo: La ragazza col vecchione (Buonafede, Atto I, Scena V)
Un avaro suda e pena (Cecco, Atto II, Scena V), Che mondo amabile (Buonafede, Atto II, Scena VII), Quanta gente (Clarice, Atto II, scena XII), Qua la mano (Buonafede, Atto III, Scena ultima)
- 12 Arie con Da capo: Un poco di danaro (Eclittico, Atto I, Scena IV), Se amor
provasti mai (Ernesto, Atto I, Scena V), Mi fanno ridere (Cecco, Atto I, Scena VI), Affetti non turbate (Flaminia, Atto I, Scena VII), Son fanciulla (Clarice, Atto I, Scena VIII), Una donna come me (Lisetta, Atto I, Scena IX), Voi lo sapete (Eclittico, Atto II, Scena III), A quelle luci amate (Ernesto, Atto II, Scena VI), Se lo comanda (Lisetta, Atto II, Scena X), Se la mia stella (Flaminia, Atto II, Scena XI), Un parigin che serva (Clarice, Atto III, Scena II), Quando si trovano (Lisetta, Atto III, Scena IV)
- 4 Piccole Sinfonie: Atto II, Scena II (2), Scena IV, Scena X
- 3 Duetti: Non aver di me sospetto (Buonafede-Lisetta, Atto II, Scena IX), Cara ti stringo al seno (Ernesto-Flaminia, Atto III, Scena ultima), Sposina mia cara (Eclittico-Clarice, Atto III, Scena ultima)
- 2 Quartetti: Finale Atto I, Finale Atto II

Il mondo della luna di Galuppi è il primo in ordine di tempo: quelli di Paisiello e di Haydn nascono, rispettivamente, 24 e 27 anni dopo: questa precedenza da un lato determina automaticamente i limiti della consistenza della partitura galuppiana, comunque del tutto adeguata e perfettamente equilibrata in ogni direzione, dall’altro favorisce la piena rispondenza del discorso musicale con lo spirito goldoniano. E, infatti, è nata sul testo appena composto, in un rapporto diretto di collaborazione e di intesa con l’autore; e questo è un indubbio vantaggio, perché ha consentito a Galuppi di entrare immediatamente dentro i personaggi e le situazioni senza alcuna intermediazione e quindi senza alcun condizionamento interno o esterno. Naturalmente è l’inizio di un nuovo discorso e quindi alla freschezza delle intuizioni corrisponde l’essenzialità dei mezzi e della loro articolazione.
D’altra parte, al ‘realismo’ goldoniano Galuppi risponde sempre con una puntuale ed efficace caratterizzazione di ogni singolo personaggio e dei diversi atteggiamenti di ciascuno, sottolineando di volta in volta l’aspetto ironico e quello sentimentale, con una eccezionale varietà di invenzioni e con un equilibrio complessivo che coinvolge intrinsecamente tutti i rapporti musicali e quelli rappresentativi.
Vengono efficacemente delineati, in altre parole, con la dilatazione e l’intensificazione richieste dalle esigenze e dai ritmi della dimensione rappresentativa, i diversi aspetti dello stile ‘galante’, con il quale lo stile giocoso ha un legame diretto e sostanziale: la levità e l’eleganza, la contenuta ma intensa varietà, il delicato equilibrio fra diversi approfondimenti, l’efficacia e la piacevolezza dell’invenzione, le controllate ma sensibili oscillazioni fra gli atteggiamenti gioiosi, giocosi, sentimentali e meditativi.
La prima constatazione, insomma, è che tutta la musica del Buranello è di una originalità assoluta (come dice il Burney, Molti passi di Galuppi vennero certamente resi comuni…ma allora eran nuovi); la seconda riguarda la evidente caratterizzazione di queste invenzioni: ne Il mondo della luna ci sono 32 brani e non ce n’è uno, come ne Il mondo alla roversa, che assomigli a un altro, se non per la necessità, e questo è il segno di una coerenza cosciente, di fissare tipologie espressive che mantengano la fisionomia drammaturgica di ogni singolo personaggio anche nel mutare delle situazioni. La terza constatazione riguarda il rapporto fra testo e musica: si direbbe che la leggerezza e talvolta la superficialità del libretto goldoniano siano largamente compensate dalla incisività delle intuizioni galuppiane.

C) La revisione e l’interpretazione strumentale

Sono molte le copie di quest’Opera, ognuna adattata alle circostanze e alle disponibilità e quindi tutte con differenze più o meno rilevanti rispetto al libretto.
Per ricostruire la partitura, non avendo avuto la possibilità di reperire l’autografo, ammesso che esista, mi sono basato principalmente sulla copia manoscritta custodita presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, che ho constatato essere la più completa e fedele rispetto al libretto goldoniano, nonostante alcune omissioni (volute dal Buranello?) e alcune sostituzioni (certamente richieste dalle circostanze).
Nel manoscritto citato mancano, rispetto al libretto: 1) dialogo fra gli Scolari e Buonafede (Atto I, Scena III); 2) dialogo fra quattro Cavalieri ed Eclittico-Buonafede (Atto II, Scena III); 3) interventi di Eclittico-Buonafede-Lisetta prima del Coro finale.
Sono diverse, poi, le Arie di Ernesto (Atto I, Scena V; Atto II, Scena VI) e di Flaminia (Atto I, Scena VII; Atto III, Scena III).

L’organico strumentale, nel manoscritto indicato (i Recitativi sono tutti secchi) prevede gli archi, 2 oboi e 2 corni.
Nella mia ‘interpretazione strumentale’, in ogni caso pienamente conforme sotto tutti gli aspetti alla prassi dell’epoca e totalmente rispettosa di tutte le indicazioni del manoscritto: A) ho aggiunto due flauti e un fagotto; B) ho raddoppiato alcuni frammenti particolarmente significativi; C) ho sostituito in alcuni casi il violoncello con il fagotto e i violini con uno o due oboi; D) ho alternato i ‘Soli’ con i ‘Tutti’.
Una adeguata interpretazione strumentale, per un’Opera come questa, era secondo me sostanzialmente obbligatoria: per evidenziare al massimo possibile le singole situazioni; per sottolineare le differenziazioni espressive inequivocabilmente volute dal Buranello; per far emergere in modo appropriato le singole caratterizzazioni attraverso un utilizzo finalizzato delle risorse timbriche disponibili entro i limiti della prassi dell’epoca; per creare diversi piani sonori e per determinare quindi una varietà di situazioni che esaltasse il realismo e la vivacità degli avvenimenti rappresentati; per valorizzare con una colorazione adeguata la successione delle immagini anche in rapporto alle indicazioni dinamiche originali.
Non c’è dubbio che un organico di soli archi, con qualche rado intervento di rinforzo degli oboi e dei corni, per tutti i 32 brani dell’Opera avrebbe favorito un sostanziale appiattimento dal punto di vista espressivo e rappresentativo (non dobbiamo dimenticare che questa è musica composta per il teatro!) delle straordinarie invenzioni del Buranello su una tavolozza praticamente monocromatica e quindi ‘monotona’; non c’è dubbio, poi, che le indicazioni degli organici strumentali in Opere di grande consumo, come questa (fra l’altro, destinata in origine al carnevale), costituivano o potevano costituire una sorta di ‘canovaccio obbligato’ suscettibile, in quanto appunto ‘canovaccio’, di integrazioni e ‘adattamenti’. D’altra parte, la mia interpretazione strumentale è un atto che si aggiunge e non si sostituisce alla revisione vera e propria e che con essa si integra; in altre parole: rispettando rigorosamente e rispettosamente la sostanza, ho scelto, e la scelta mi è stata suggerita dalla natura stessa di questa partitura, di ripetere oggi, comunque con finalità non pratiche ma squisitamente musicali e teatrali, la stessa operazione che nel Settecento si faceva con tutta naturalezza quasi ad ogni rappresentazione.

Fra le molte repliche, di particolare importanza è quella di Esterhazy (1777) sicuramente ascoltata da F. J. Haydn: il suo Mondo della luna, con non poche assonanze galuppiane, sviluppa taluni stimoli e ingrandisce alcune invenzioni del Buranello fino a toccare altre dimensioni, sostituendo la vivace lievità della partitura veneziana con una elaborata e splendida staticità quasi oratoriale e talvolta asettica rispetto allo spirito del libretto (non si può, a questo proposito, non ricordare che Haydn riutilizzò sei brani di quest’Opera nei Trii per flauto, violino e violoncello e che un’Aria di Ernesto diventa addirittura il Benedictus della ‘Messa di Mariazell’; l’Ouverture, poi, fu ristrumentata come primo Movimento della Sinfonia n. 63).

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Baldassarre GALUPPI, IL MONDO ALLA ROVERSA (rev.: FRANCO PIVA)

Baldassarre GALUPPI, IL MONDO ALLA ROVERSA
(revisione: FRANCO PIVA)

A) Il libretto goldoniano

Cortile spazioso, ornato di spoglie virili all’intorno… Termina il cortile con archi maestosi, oltre i quali vedesi la gran piazza, da dove entrano nel cortile sovra carro trionfale, tirato da varj uomini, Tullia, Cintia, Aurora, precedute da coro di donne, le quali portano seco loro delle catene e delle vittoriose insegne. Mentre si canta dal coro, gli uomini vengono incatenati.

Le tre donne prendono in esame le varie possibilità per tenere soggiogati gli uomini. Cintia propone il disprezzo, perché

Più sprezzanti le donne e più crudeli
Essi son più pazienti e più fedeli.

Aurora, invece, propone la lusinga:

Finger ognor d’amarli,
Accenderli ben bene a poco a poco,
E poi del loro amor prendersi gioco.

Tullia consiglia la prudenza; ma Cintia ribadisce con vivacità e decisione il suo punto di vista:

…io vuo’ costoro
Aspramente trattar: voglio vederli
Piangere, e sospirare,
Fremere, delirare;

Tullia, allora, propone di riunire il consiglio per stabilire delle leggi

…onde si renda
Impossibile all’uomo scuotere il giogo

Naturalmente il rapporto ‘alla roversa’ determina situazioni del tutto particolari, come quando, ad esempio, Graziosino entra in scena facendo la calza e dichiara ad Aurora:
Sì, cara, farò tutto,
Farò la cameriera,
Farò la cuciniera,
Farò tutte le cose più triviali;
Laverò le scodelle, e gli orinali.

Il secondo personaggio maschile è l’orgoglioso Giacinto:

…schiavo son io
di queste belle, è vero,
ma sovra il loro cor tutt’ho l’impero.

Il dialogo fra Cintia e Giacinto è piuttosto animato e vivace, perché nessuno dei due vuole cedere. Quando Giacinto minaccia di andarsene da un’altra, Cintia s’infuria e si dichiara innamorata; ma appena Giacinto crede di averla finalmente piegata, Cintia, prendendosene gioco, lo respinge, ribadendo il suo atteggiamento iniziale:

Se gli uomini sospirano,
che cosa importa a me?
Che pianghino, che crepino,
ma vuo’ che stiano lì…

Entra in scena, quindi, Rinaldino, che si affianca a Tullia e che si dichiara perfettamente soddisfatto della situazione.
Giacinto, schernito e umiliato, mette in atto la sua minaccia e dichiara il suo amore ad Aurora. Sopraggiunge Cintia che sorprende il ‘suo’ Giacinto in dolce colloquio con la rivale; diventa allora inevitabile lo scontro fra Aurora e Cintia e il conseguente imbarazzo di Giacinto, il quale, alle due donne che gli domandano

E ben che risolvete?

risponde

Mie belle, se volete,
Io mi dividerò.
Contente voi sarete,
Non dubitate, no.

Secondo l’iniziale progetto, viene riunito il consiglio per stabilire leggi e forma di governo. Dopo aver scelto la monarchia, Tullia suggerisce che ciascuna proponga se stessa: chi otterrà più consensi potrà governare a nome di tutte. Ma nessuna ottiene un solo voto.
Tullia commenta:

Per quello che si vede e si sente
Niuna donna acconsente
All’altra star soggetta;
a ogn’una piace il comandar sovrano,
e soggiogarle si procura invano.

Ciascuna delle candidate, allora, visto fallire il tentativo di conquistare ‘legalmente’ il potere, si ripropone di prenderlo con altri mezzi.
In un Giardino delizioso all riva del mare, il quale formando un seno nel lido, offre comodo sbarco ai piccoli legni, Rinaldino, Giacinto e Graziosino raccolgono fiori per le rispettive amate.
Arriva una barca carica di uomini che vengono subito aggregati, come schiavi d’amore, alla comunità. Uni di essi, Ferramonte, riesce a sottrarsi alla cattura e, sostenendo la superiorità degli uomini, incita Rinaldino alla rivolta.
Cintia, sempre decisa a governare comunque, pone a Giacinto questo dilemma: o uccidere tutte le rivali o essere da lei ucciso. Giacinto, per levarsi d’impiccio, sceglie la prima alternativa, ma quando sopragginge Aurora, che dovrebbe essere la sua prima vittima, non ha il coraggio di mantenere la promessa, cade ai suoi piedi e le confessa ogni cosa. Naturalmente Aurora si ripromette a sua volta di far uccidere Cintia e riesce a strappare al suo Graziosino una solenne promessa in tal senso.
Rinaldino, convinto da Ferramonte, riconosce la sua ‘debolezza’ e si dichiara pronto a riprendere il potere. Tullia, profondamente delusa per la gelosia e l’odio che le donne nutrono fra di loro, dichiara a Rinaldino che vuole essergli soggetta e che riaffida il governo agli uomini; poco dopo anche Aurora segue il suo esempio. Soltanto Cintia si aggrappa disperatamente alla speranza di poter dominare e, quando si accorge che è praticamente impossibile, la sua rabbia esplode violentemente:

Lupi, tigri, leoni,
Gattipardi, pantere, orsi e mastini
Mi sento a divorar negl’intestini.

Alla fine è costretta a rassegnarsi: la situazione, quindi, si capovolge e cioè diventa ‘normale’.

Il primo Atto può essere suddiviso in tre momenti distinti: all’inizio c’è la presentazione delle tre protagoniste; successivamente ad esse si aggiungono Rinadino, Giacinto e Graziosino; infine vengono approfonditi i rapporti che nascono in seguito ai diversi atteggiamenti dei singoli personaggi. Lo sviluppo narrativo, graduale e coerente, attribuisce al primo Atto il senso di un crescendo per il progressivo intensificarsi delle situazioni.
La struttura del secondo è simile; possono essere individuati, infatti, tre momenti distinti, sostanzialmente corrispondenti: all’inizio appaiono le tre donne con i loro particolari problemi, questa volta di carattere ‘politico’; vengono poi sviluppate le variee situazioni provocate dai rapporti ‘alla roversa’; infine vengono definiti i contrasti cui lo sviluppo di tali rapporti dà origine.
Esiste, quindi, fra il primo e il secondo Atto, una analogia abbastanza evidente, sia per l’ordine narrativo e rappresentativo sia per il ‘crescendo’, che è ottenuto anche nel secondo Atto con un graduale e sensibile accentuarsi delle tensioni.
Le scene del secondo Atto, poi, sono più vivaci e più complesse rispetto a quelle del primo, per cui si può parlare di un ‘crescendo’ globale ottenuto anche con l’introduzione di mezzi diversi. E il terzo Atto può essere considerato come la ‘naturale’ soluzione della tensione: le cose ritornano alla ‘normalità’ come dissonanze che risolvono.
Il libretto è dunque concepito secondo una logica strutturale equilibrata e funzionale: al di sotto dei giochi c’è uno scheletro chiaramente e armonicamente distribuito nella sua simmetrica articolazione. Si tratta, quindi, di un testo relativamente ‘impegnato’,
anche se va tenuto presente che l’entità dell’impegno deve essere misurata in rapporto non alle Commedie del Goldoni, come fa il Bollert, ma ai limiti della librettistica precedente e contemporanea. Da questo confronto, scrive Claudio Sartori,
il Goldoni uscirà con un merito in più al suo attivo: ne uscirà come il riformatore del teatro buffo musicale e come l’ispiratore, per lo meno, dell’opera buffa borghese veneziana.
Scrive Franco Fido: “ Con una quindicina di intermezzi e più di 50 drammi giocosi, Goldoni è stato uno dei più fecondi e certo il più influente librettista comico del ‘700.
Le date stesse della sua carriera in questo campo sono significative perché coincidono coi fasti dell’opera buffa nella sua stagione più felice: dai primi intermezzi La cantatrice (1729-1730) e La birba (1735), contemporanei ai trionfi napoletani di Hasse e Pergolesi, fino alla lunga e fruttuosa collaborazione col Galuppi, al successo romano, poi europeo, de La buona figliola, musicata dal Piccinni, agli ultimi stanchi libretti composti in Francia, come I volponi del 1777, quando ormai Cimarosa si avviava a diventare il più grande e il più ‘mozartiano’ dei maestri italiani”.
Quando scrivo per musica – afferma Carlo Goldoni – l’ultimo a cui io pensi sono io medesimo. Penso agli attori, al maestro di cappella moltissimo, penso al piacere degli uditori in teatro…”.
Goldoni mostra di essere perfettamente cosciente del fatto che questi suoi lavori possono essere valutati correttamente soltanto da chi tenga ben presente la loro finalità ultima: vanno, infatti, considerati non come pura letteratura ma come una delle componenti del teatro musicale in funzione della rappresentazione con musica.
Bisogna, poi, sottolineare il fatto che questi libretti, pur con tutti i loro limiti, costituiscono un fatto sostanzialmente nuovo rispetto alla librettistica contemporanea e immediatamente precedente dello stesso genere, così come le commedie goldoniane costituiscono un fatto nuovo rispetto all’impostazione e alla articolazione delle pièces teatrali precedenti: si può dire, infatti, che la riforma goldoniana sia stata realizzata, prima ancora che nelle commedie, nei libretti per musica.
Se è vero che l’importanza complessiva dei risultati non dipende singolarmente dal valore del poeta o da quello del musicista, perché ci possono essere pessimi libretti con musiche importanti e musiche pessime su importanti testi, è altrettanto vero che se un libretto non ha ‘né mezzo, né principio, né fine’, come scrive lo Scherillo a proposito di molti poeti della Scuola Napoletana, è molto difficile che possa uscire un buon lavoro sul piano drammaturgico e su quello musicale. L’opera, infatti, va considerata non come un assemblaggio di momenti staccati singolarmente più o meno felici ma nella sua globalità, nella sua articolazione complessiva; perché se la musica e la parola devono unirsi per dare origine a un fatto rappresentativo che abbia un senso, come può un lavoro musicale riuscire valido se il testo, e quindi la vicenda e i personaggi e le situazioni, risultano insignificanti, superficiali, vuoti, arruffati, approssimativi? Ci può essere magari un testo letterariamente brutto ma denso di allusioni, di significati, di suggerimenti, di suggestioni: e allora il musicista può far uscire da quel testo tutto quello che esso sottintende o lascia intravvedere; ma questo, almeno, ci deve essere (e alcuni musicisti, in verità, preferiscono libretti di questo tipo a quelli che dicono tutto e in modo formalmete perfetto). E’ vero che nel Settecento i compositori si adattavano a tutto pur di soddisfare nel miglior modo possibile le pressanti richieste del mercato; ma quando il compositore riusciva a realizzare un equilibrato compromesso fra la necessità di produrre comunque e molto e i fondamentali parametri di un solido professionismo, allora poteva uscire il lavoro omogenero e funzionale, sufficientemente impegnato e significativo. Ma occorreva, appunto, la convergenza di molteplici fattori, fra i quali uno dei fondamentali è certamente il testo. Perché non dimentichiamo che si parla di musica per il teatro: sulla scena ci sono dei cantanti in costume che si muovono in un certo ambiente e che rappresentano una qualche vicenda e la musica deve essere ‘giusta’ e cioè deve avere il giusto peso nel rapporto con gli altri aspetti della rappresentazione e deve avere una appropriata caratterizzazione espressiva. Si può anche valutare un testo soltanto dal punto di vista letterario, così come si può valutare la partitura composta per quel testo soltanto dal punto di vista musicale; se, però, un testo è nato per essere musicato e se è stato, quindi, pensato e costruito per questo scopo, sarà corretta la sua valutazione soltanto se fatta in questa prospettiva.

B) La partitura

La ricostruzione della partitura originale è stata da me effettuata collazionando due copie manoscritte dell’Opera: l’una, fortemente spuria, proveniente dalla Biblioteca Estense di Modena (303 pagine di un solo copista), l’altra dalla Biblioteca del Conservatorio di Bruxelles (405 pagine scritte da tre mani diverse).
La copia di Modena è stata verosimilmente preparata per la rappresentazione avvenuta in quella città, al teatro Rangoni, nel carnevale 1756: una versione assai semplificata (mancano le scene più complesse del secondo Atto) e evidentemente adattata ai gusti e alle possibilità dei solisti (cinque Arie, di cui non mi è stato possibile accertare la provenienza, non hanno alcuna relazione con il libretto)
Nel frontespizio del manoscritto di Bruxelles viene indicata una rappresentazione al S. Cassiano di Venezia (1752), che non mi risulta confermata da altre fonti: non è da escludere che il copista si riferisse alla Prima avvenuta proprio al S.Cassiano, ma nell’autunno 1750.
La partitura contiene:

l’ Ouverture (Allegro, Andante, Allegro);
14 Arie con Da capo: Fiero leon (Tullia), Atto I
Quegli occhietti (Aurora), Atto I
Quando gli augelli cantano (Graziosino), Atto I
In quel volto (Giacinto), Atto I
Se gli uomini sospirano (Cintia), Atto I
Cari lacci (Tullia), Atto I
Gioie care (Rinaldino), Atto I
Fra tutti gli affetti (Tullia), Atto II
Nocchier che s’abbandona (Rinaldino), Atto II
Che cosa son le donne (Cintia), Atto II
Al bello delle femmine (Giacinto), Atto II
Quando vien la mia nemica (Aurora), Atto II
Son di coraggio armato (Graziosino), Atto II
Chi troppo ad amor crede (Rinaldino), Atto II;
6 Arie senza Da capo: Madre natura (Giacinto), Atto I
Quando le donne parlano (Ferramonte), Atto II
Fino ch’io viva (Tullia), Atto III
Le donne col cervello (Ferramonte), Atto III
Che bel regnar (Cintia), Atto III
Giuro (Graziosino), Atto III;
1 Duetto: Eccomi al vostro piede (Cintia, Giacinto), Atto III;
3 Terzetti: Venite o ch’io vi faccio (Aurora, Cintia, Giacinto), Atto I
Queste rose porporine (Rinaldino, Giacinto, Graziosino), Atto II
A terra (Rinaldino, Giacinto, Graziosino), Atto II;
1 Quartetto: E’ questa la promessa (Aurora, Cintia, Giacinto, Graziosino), Atto II;
3 brevi interventi strumentali: Marcia (due oboi e due corni in scena), Atto II
Sinfonia (orchestra), Atto II
Marcia (dialogo fra strumenti in scena e orchestra),
Atto II;
4 brani corali: Presto, presto alla catena, ripetuto tre volte con varianti, Atto I e II
Libertà, libertà, ripetuto sei volte testualmente o con varianti, Atto II
Pietà, pietà di noi, ripetuto testualmente due volte e rimusicato a
Conclusione dell’Opera, Atto III.

I Recitativi sono tutti secchi. Vi sono tre situazioni particolari: una Arietta di Cintia
(Il capo mi frulla) all’interno del Recitativo Colui di Ferramonte (Atto III, Scena VI);
alcuni brevi interventi articolati del B.c. all’interno del Recitativo La vogliamo vedere (Atto II, Scena VIII); alcuni frammenti di Recitativo senza B.c. all’interno dell’Aria Giuro (Atto III, Scena VI).
L’organico vocale comprende: un soprano (Tullia), due mezzosoprani (Cintia, Aurora), due tenori (Rinaldino, Ferramonte), due baritoni (Giacinto, Graziosino); quello strumentale prevede, oltre agli archi e al clavicembalo, due oboi e due corni.
I due manoscritti sono particolarmente ricchi di indicazioni dinamiche: nella versione di Bruxelles ne ho rilevate più di 900 in 320 pagine di partitura. Il fatto assume grande rilevanza (l’Opera è del 1750) e contrasta clamorosamente con l’opinione di coloro che sostengono una sorta di asetticità della musica di questo secolo; oltretutto, sarebbe scorretto anche dal punto di vista strettamente filologico non attribuire a tutte queste indicazioni dinamiche, precise e inequivocabili (coincidono puntualmente nelle due versioni), il giusto rilievo sul piano esecutivo e interpretativo.
Le Arie, generalmente articolate secondo il rapporto ‘proposta / risposta’ in raggruppamenti, talvolta ‘irregolari’, per frasi e periodi, non mostrano sensibili condizionamenti da precisi schemi fissi: sono di volta in volta inventate, in relazione alla tensione rappresentativa ed espressiva del testo, con una varietà e una ricchezza non tanto comuni.
Ogni intervento, immediatamente efficace anche in rapporto alla essenziale semplicità dell’impostazione, è caratterizzato in modo deciso: la scelta del metro, del ritmo, del movimento, degli elementi tematici, degli aspetti dinamici, del tipo di vocalità e della articolazione del discorso è direttamente e intimamente connessa con la natura del personaggio e con la particolare situazione scenica. Quello che scrive Paolo Sartori (I temi del Galuppi sono vivi, parlanti, individuali, caratteristici. Preferisce egli i ritmi corti, spezzati…, le forme più irregolari metriche e ritmiche e le accentuazioni delle parole più strane. E’ tutta una novità e una ricchezza ritmica però che segue e sottolinea il testo nelle sue minime sfumature. E’ dunque una differenziazione quella dell’arte galuppiana che dipende dal testo musicato, che è strettamente legata al significato delle parole, che nasce dalla preoccupazione unica di non sovrastare alla parola, di non guastarne lo spirito, di lasciarla chiara e comprensibile al di sopra della musica, di sottolinearne semmai l’arguzia. E’ insomma un continuo commento) è sostanzialmente da condividere, ma, almeno in questo caso, soltanto in parte; ne Il mondo alla roversa, infatti, la musica è molto di più di un semplice ‘commento’: è invenzione viva e reale, naturalmente e necessariamente legata in modo profondo al testo, ma con un acuto e puntuale spirito di ricerca che, ben oltre il ‘commento’, determina situazioni musicalmente e strutturalmente compiute con intrinseci valori autonomi e con una coerente e omogenea caratterizzazione espressiva.

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