Baldassarre GALUPPI, IL MONDO ALLA ROVERSA (rev.: FRANCO PIVA)

Baldassarre GALUPPI, IL MONDO ALLA ROVERSA
(revisione: FRANCO PIVA)

A) Il libretto goldoniano

Cortile spazioso, ornato di spoglie virili all’intorno… Termina il cortile con archi maestosi, oltre i quali vedesi la gran piazza, da dove entrano nel cortile sovra carro trionfale, tirato da varj uomini, Tullia, Cintia, Aurora, precedute da coro di donne, le quali portano seco loro delle catene e delle vittoriose insegne. Mentre si canta dal coro, gli uomini vengono incatenati.

Le tre donne prendono in esame le varie possibilità per tenere soggiogati gli uomini. Cintia propone il disprezzo, perché

Più sprezzanti le donne e più crudeli
Essi son più pazienti e più fedeli.

Aurora, invece, propone la lusinga:

Finger ognor d’amarli,
Accenderli ben bene a poco a poco,
E poi del loro amor prendersi gioco.

Tullia consiglia la prudenza; ma Cintia ribadisce con vivacità e decisione il suo punto di vista:

…io vuo’ costoro
Aspramente trattar: voglio vederli
Piangere, e sospirare,
Fremere, delirare;

Tullia, allora, propone di riunire il consiglio per stabilire delle leggi

…onde si renda
Impossibile all’uomo scuotere il giogo

Naturalmente il rapporto ‘alla roversa’ determina situazioni del tutto particolari, come quando, ad esempio, Graziosino entra in scena facendo la calza e dichiara ad Aurora:
Sì, cara, farò tutto,
Farò la cameriera,
Farò la cuciniera,
Farò tutte le cose più triviali;
Laverò le scodelle, e gli orinali.

Il secondo personaggio maschile è l’orgoglioso Giacinto:

…schiavo son io
di queste belle, è vero,
ma sovra il loro cor tutt’ho l’impero.

Il dialogo fra Cintia e Giacinto è piuttosto animato e vivace, perché nessuno dei due vuole cedere. Quando Giacinto minaccia di andarsene da un’altra, Cintia s’infuria e si dichiara innamorata; ma appena Giacinto crede di averla finalmente piegata, Cintia, prendendosene gioco, lo respinge, ribadendo il suo atteggiamento iniziale:

Se gli uomini sospirano,
che cosa importa a me?
Che pianghino, che crepino,
ma vuo’ che stiano lì…

Entra in scena, quindi, Rinaldino, che si affianca a Tullia e che si dichiara perfettamente soddisfatto della situazione.
Giacinto, schernito e umiliato, mette in atto la sua minaccia e dichiara il suo amore ad Aurora. Sopraggiunge Cintia che sorprende il ‘suo’ Giacinto in dolce colloquio con la rivale; diventa allora inevitabile lo scontro fra Aurora e Cintia e il conseguente imbarazzo di Giacinto, il quale, alle due donne che gli domandano

E ben che risolvete?

risponde

Mie belle, se volete,
Io mi dividerò.
Contente voi sarete,
Non dubitate, no.

Secondo l’iniziale progetto, viene riunito il consiglio per stabilire leggi e forma di governo. Dopo aver scelto la monarchia, Tullia suggerisce che ciascuna proponga se stessa: chi otterrà più consensi potrà governare a nome di tutte. Ma nessuna ottiene un solo voto.
Tullia commenta:

Per quello che si vede e si sente
Niuna donna acconsente
All’altra star soggetta;
a ogn’una piace il comandar sovrano,
e soggiogarle si procura invano.

Ciascuna delle candidate, allora, visto fallire il tentativo di conquistare ‘legalmente’ il potere, si ripropone di prenderlo con altri mezzi.
In un Giardino delizioso all riva del mare, il quale formando un seno nel lido, offre comodo sbarco ai piccoli legni, Rinaldino, Giacinto e Graziosino raccolgono fiori per le rispettive amate.
Arriva una barca carica di uomini che vengono subito aggregati, come schiavi d’amore, alla comunità. Uni di essi, Ferramonte, riesce a sottrarsi alla cattura e, sostenendo la superiorità degli uomini, incita Rinaldino alla rivolta.
Cintia, sempre decisa a governare comunque, pone a Giacinto questo dilemma: o uccidere tutte le rivali o essere da lei ucciso. Giacinto, per levarsi d’impiccio, sceglie la prima alternativa, ma quando sopragginge Aurora, che dovrebbe essere la sua prima vittima, non ha il coraggio di mantenere la promessa, cade ai suoi piedi e le confessa ogni cosa. Naturalmente Aurora si ripromette a sua volta di far uccidere Cintia e riesce a strappare al suo Graziosino una solenne promessa in tal senso.
Rinaldino, convinto da Ferramonte, riconosce la sua ‘debolezza’ e si dichiara pronto a riprendere il potere. Tullia, profondamente delusa per la gelosia e l’odio che le donne nutrono fra di loro, dichiara a Rinaldino che vuole essergli soggetta e che riaffida il governo agli uomini; poco dopo anche Aurora segue il suo esempio. Soltanto Cintia si aggrappa disperatamente alla speranza di poter dominare e, quando si accorge che è praticamente impossibile, la sua rabbia esplode violentemente:

Lupi, tigri, leoni,
Gattipardi, pantere, orsi e mastini
Mi sento a divorar negl’intestini.

Alla fine è costretta a rassegnarsi: la situazione, quindi, si capovolge e cioè diventa ‘normale’.

Il primo Atto può essere suddiviso in tre momenti distinti: all’inizio c’è la presentazione delle tre protagoniste; successivamente ad esse si aggiungono Rinadino, Giacinto e Graziosino; infine vengono approfonditi i rapporti che nascono in seguito ai diversi atteggiamenti dei singoli personaggi. Lo sviluppo narrativo, graduale e coerente, attribuisce al primo Atto il senso di un crescendo per il progressivo intensificarsi delle situazioni.
La struttura del secondo è simile; possono essere individuati, infatti, tre momenti distinti, sostanzialmente corrispondenti: all’inizio appaiono le tre donne con i loro particolari problemi, questa volta di carattere ‘politico’; vengono poi sviluppate le variee situazioni provocate dai rapporti ‘alla roversa’; infine vengono definiti i contrasti cui lo sviluppo di tali rapporti dà origine.
Esiste, quindi, fra il primo e il secondo Atto, una analogia abbastanza evidente, sia per l’ordine narrativo e rappresentativo sia per il ‘crescendo’, che è ottenuto anche nel secondo Atto con un graduale e sensibile accentuarsi delle tensioni.
Le scene del secondo Atto, poi, sono più vivaci e più complesse rispetto a quelle del primo, per cui si può parlare di un ‘crescendo’ globale ottenuto anche con l’introduzione di mezzi diversi. E il terzo Atto può essere considerato come la ‘naturale’ soluzione della tensione: le cose ritornano alla ‘normalità’ come dissonanze che risolvono.
Il libretto è dunque concepito secondo una logica strutturale equilibrata e funzionale: al di sotto dei giochi c’è uno scheletro chiaramente e armonicamente distribuito nella sua simmetrica articolazione. Si tratta, quindi, di un testo relativamente ‘impegnato’,
anche se va tenuto presente che l’entità dell’impegno deve essere misurata in rapporto non alle Commedie del Goldoni, come fa il Bollert, ma ai limiti della librettistica precedente e contemporanea. Da questo confronto, scrive Claudio Sartori,
il Goldoni uscirà con un merito in più al suo attivo: ne uscirà come il riformatore del teatro buffo musicale e come l’ispiratore, per lo meno, dell’opera buffa borghese veneziana.
Scrive Franco Fido: “ Con una quindicina di intermezzi e più di 50 drammi giocosi, Goldoni è stato uno dei più fecondi e certo il più influente librettista comico del ‘700.
Le date stesse della sua carriera in questo campo sono significative perché coincidono coi fasti dell’opera buffa nella sua stagione più felice: dai primi intermezzi La cantatrice (1729-1730) e La birba (1735), contemporanei ai trionfi napoletani di Hasse e Pergolesi, fino alla lunga e fruttuosa collaborazione col Galuppi, al successo romano, poi europeo, de La buona figliola, musicata dal Piccinni, agli ultimi stanchi libretti composti in Francia, come I volponi del 1777, quando ormai Cimarosa si avviava a diventare il più grande e il più ‘mozartiano’ dei maestri italiani”.
Quando scrivo per musica – afferma Carlo Goldoni – l’ultimo a cui io pensi sono io medesimo. Penso agli attori, al maestro di cappella moltissimo, penso al piacere degli uditori in teatro…”.
Goldoni mostra di essere perfettamente cosciente del fatto che questi suoi lavori possono essere valutati correttamente soltanto da chi tenga ben presente la loro finalità ultima: vanno, infatti, considerati non come pura letteratura ma come una delle componenti del teatro musicale in funzione della rappresentazione con musica.
Bisogna, poi, sottolineare il fatto che questi libretti, pur con tutti i loro limiti, costituiscono un fatto sostanzialmente nuovo rispetto alla librettistica contemporanea e immediatamente precedente dello stesso genere, così come le commedie goldoniane costituiscono un fatto nuovo rispetto all’impostazione e alla articolazione delle pièces teatrali precedenti: si può dire, infatti, che la riforma goldoniana sia stata realizzata, prima ancora che nelle commedie, nei libretti per musica.
Se è vero che l’importanza complessiva dei risultati non dipende singolarmente dal valore del poeta o da quello del musicista, perché ci possono essere pessimi libretti con musiche importanti e musiche pessime su importanti testi, è altrettanto vero che se un libretto non ha ‘né mezzo, né principio, né fine’, come scrive lo Scherillo a proposito di molti poeti della Scuola Napoletana, è molto difficile che possa uscire un buon lavoro sul piano drammaturgico e su quello musicale. L’opera, infatti, va considerata non come un assemblaggio di momenti staccati singolarmente più o meno felici ma nella sua globalità, nella sua articolazione complessiva; perché se la musica e la parola devono unirsi per dare origine a un fatto rappresentativo che abbia un senso, come può un lavoro musicale riuscire valido se il testo, e quindi la vicenda e i personaggi e le situazioni, risultano insignificanti, superficiali, vuoti, arruffati, approssimativi? Ci può essere magari un testo letterariamente brutto ma denso di allusioni, di significati, di suggerimenti, di suggestioni: e allora il musicista può far uscire da quel testo tutto quello che esso sottintende o lascia intravvedere; ma questo, almeno, ci deve essere (e alcuni musicisti, in verità, preferiscono libretti di questo tipo a quelli che dicono tutto e in modo formalmete perfetto). E’ vero che nel Settecento i compositori si adattavano a tutto pur di soddisfare nel miglior modo possibile le pressanti richieste del mercato; ma quando il compositore riusciva a realizzare un equilibrato compromesso fra la necessità di produrre comunque e molto e i fondamentali parametri di un solido professionismo, allora poteva uscire il lavoro omogenero e funzionale, sufficientemente impegnato e significativo. Ma occorreva, appunto, la convergenza di molteplici fattori, fra i quali uno dei fondamentali è certamente il testo. Perché non dimentichiamo che si parla di musica per il teatro: sulla scena ci sono dei cantanti in costume che si muovono in un certo ambiente e che rappresentano una qualche vicenda e la musica deve essere ‘giusta’ e cioè deve avere il giusto peso nel rapporto con gli altri aspetti della rappresentazione e deve avere una appropriata caratterizzazione espressiva. Si può anche valutare un testo soltanto dal punto di vista letterario, così come si può valutare la partitura composta per quel testo soltanto dal punto di vista musicale; se, però, un testo è nato per essere musicato e se è stato, quindi, pensato e costruito per questo scopo, sarà corretta la sua valutazione soltanto se fatta in questa prospettiva.

B) La partitura

La ricostruzione della partitura originale è stata da me effettuata collazionando due copie manoscritte dell’Opera: l’una, fortemente spuria, proveniente dalla Biblioteca Estense di Modena (303 pagine di un solo copista), l’altra dalla Biblioteca del Conservatorio di Bruxelles (405 pagine scritte da tre mani diverse).
La copia di Modena è stata verosimilmente preparata per la rappresentazione avvenuta in quella città, al teatro Rangoni, nel carnevale 1756: una versione assai semplificata (mancano le scene più complesse del secondo Atto) e evidentemente adattata ai gusti e alle possibilità dei solisti (cinque Arie, di cui non mi è stato possibile accertare la provenienza, non hanno alcuna relazione con il libretto)
Nel frontespizio del manoscritto di Bruxelles viene indicata una rappresentazione al S. Cassiano di Venezia (1752), che non mi risulta confermata da altre fonti: non è da escludere che il copista si riferisse alla Prima avvenuta proprio al S.Cassiano, ma nell’autunno 1750.
La partitura contiene:

l’ Ouverture (Allegro, Andante, Allegro);
14 Arie con Da capo: Fiero leon (Tullia), Atto I
Quegli occhietti (Aurora), Atto I
Quando gli augelli cantano (Graziosino), Atto I
In quel volto (Giacinto), Atto I
Se gli uomini sospirano (Cintia), Atto I
Cari lacci (Tullia), Atto I
Gioie care (Rinaldino), Atto I
Fra tutti gli affetti (Tullia), Atto II
Nocchier che s’abbandona (Rinaldino), Atto II
Che cosa son le donne (Cintia), Atto II
Al bello delle femmine (Giacinto), Atto II
Quando vien la mia nemica (Aurora), Atto II
Son di coraggio armato (Graziosino), Atto II
Chi troppo ad amor crede (Rinaldino), Atto II;
6 Arie senza Da capo: Madre natura (Giacinto), Atto I
Quando le donne parlano (Ferramonte), Atto II
Fino ch’io viva (Tullia), Atto III
Le donne col cervello (Ferramonte), Atto III
Che bel regnar (Cintia), Atto III
Giuro (Graziosino), Atto III;
1 Duetto: Eccomi al vostro piede (Cintia, Giacinto), Atto III;
3 Terzetti: Venite o ch’io vi faccio (Aurora, Cintia, Giacinto), Atto I
Queste rose porporine (Rinaldino, Giacinto, Graziosino), Atto II
A terra (Rinaldino, Giacinto, Graziosino), Atto II;
1 Quartetto: E’ questa la promessa (Aurora, Cintia, Giacinto, Graziosino), Atto II;
3 brevi interventi strumentali: Marcia (due oboi e due corni in scena), Atto II
Sinfonia (orchestra), Atto II
Marcia (dialogo fra strumenti in scena e orchestra),
Atto II;
4 brani corali: Presto, presto alla catena, ripetuto tre volte con varianti, Atto I e II
Libertà, libertà, ripetuto sei volte testualmente o con varianti, Atto II
Pietà, pietà di noi, ripetuto testualmente due volte e rimusicato a
Conclusione dell’Opera, Atto III.

I Recitativi sono tutti secchi. Vi sono tre situazioni particolari: una Arietta di Cintia
(Il capo mi frulla) all’interno del Recitativo Colui di Ferramonte (Atto III, Scena VI);
alcuni brevi interventi articolati del B.c. all’interno del Recitativo La vogliamo vedere (Atto II, Scena VIII); alcuni frammenti di Recitativo senza B.c. all’interno dell’Aria Giuro (Atto III, Scena VI).
L’organico vocale comprende: un soprano (Tullia), due mezzosoprani (Cintia, Aurora), due tenori (Rinaldino, Ferramonte), due baritoni (Giacinto, Graziosino); quello strumentale prevede, oltre agli archi e al clavicembalo, due oboi e due corni.
I due manoscritti sono particolarmente ricchi di indicazioni dinamiche: nella versione di Bruxelles ne ho rilevate più di 900 in 320 pagine di partitura. Il fatto assume grande rilevanza (l’Opera è del 1750) e contrasta clamorosamente con l’opinione di coloro che sostengono una sorta di asetticità della musica di questo secolo; oltretutto, sarebbe scorretto anche dal punto di vista strettamente filologico non attribuire a tutte queste indicazioni dinamiche, precise e inequivocabili (coincidono puntualmente nelle due versioni), il giusto rilievo sul piano esecutivo e interpretativo.
Le Arie, generalmente articolate secondo il rapporto ‘proposta / risposta’ in raggruppamenti, talvolta ‘irregolari’, per frasi e periodi, non mostrano sensibili condizionamenti da precisi schemi fissi: sono di volta in volta inventate, in relazione alla tensione rappresentativa ed espressiva del testo, con una varietà e una ricchezza non tanto comuni.
Ogni intervento, immediatamente efficace anche in rapporto alla essenziale semplicità dell’impostazione, è caratterizzato in modo deciso: la scelta del metro, del ritmo, del movimento, degli elementi tematici, degli aspetti dinamici, del tipo di vocalità e della articolazione del discorso è direttamente e intimamente connessa con la natura del personaggio e con la particolare situazione scenica. Quello che scrive Paolo Sartori (I temi del Galuppi sono vivi, parlanti, individuali, caratteristici. Preferisce egli i ritmi corti, spezzati…, le forme più irregolari metriche e ritmiche e le accentuazioni delle parole più strane. E’ tutta una novità e una ricchezza ritmica però che segue e sottolinea il testo nelle sue minime sfumature. E’ dunque una differenziazione quella dell’arte galuppiana che dipende dal testo musicato, che è strettamente legata al significato delle parole, che nasce dalla preoccupazione unica di non sovrastare alla parola, di non guastarne lo spirito, di lasciarla chiara e comprensibile al di sopra della musica, di sottolinearne semmai l’arguzia. E’ insomma un continuo commento) è sostanzialmente da condividere, ma, almeno in questo caso, soltanto in parte; ne Il mondo alla roversa, infatti, la musica è molto di più di un semplice ‘commento’: è invenzione viva e reale, naturalmente e necessariamente legata in modo profondo al testo, ma con un acuto e puntuale spirito di ricerca che, ben oltre il ‘commento’, determina situazioni musicalmente e strutturalmente compiute con intrinseci valori autonomi e con una coerente e omogenea caratterizzazione espressiva.

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PRIMA RIPRESA MODERNA A BUDAPEST DE “IL MONDO DELLA LUNA” DI PAISIELLO

Il 15 settembre 2014, all’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, ha avuto luogo con vivo successo la prima ripresa moderna del’Opera giocosa in un Atto IL MONDO DELLA LUNA (San Pietroburgo, 1783) di Giovanni Paisiello, nella revisione di Franco Piva. L’esecuzione-rappresentazione è stata realizzata con la collaborazione del Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma, che ha messo a disposizione i solisti (Sabrina Cortese, So Eun Kyung, Liu Mon-Chieh, Veronica Marini, Giorgio D’andreis, Andrea Romeo, Choi Deuk Kyu),, con la partecipazione della “Franz Liszt Chamber Orchestra” e con la direzione di Franco Piva, in collaborazion e con il Teatro Nazionale Ungherese.

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I frammenti dell’ERNANI di Vincenzo BELLINI (rev.: Franco Piva)

I FRAMMENTI DELL’ ERNANI di VINCENZO BELLINI

“L’Hernani mi piace assai, e piace parimenti alla Pasta ed a Romani, ed a quanti l’hanno letto: nei primi di settembre mi metto al lavoro.”
Con queste parole scritte nella lettera del 15 luglio 1830, Bellini informa l’editore Guglielmo Cottrau di avere già scelto il soggetto della nuova opera che dovrà comporre per il Teatro Carcano di Milano.
Nel giugno dello stesso anno, il ventinovenne compositore (dopo essere guarito dalla tremenda “febbre infiamatoria gastrica biliosa”, manifestatasi il 21 del mese precedente) sceglie di passare la convalescenza sul lago di Como nella villa Passalacqua, ospite delle famiglie Cantù e Turina che avevano preso in affitto quella principesca dimora.
Durante quella felice estate, Bellini si sarebbe spesso recato anche a Blevio, dove l’eletta cantatrice Giuditta Pasta, nella sua lussuosa villa ‘La Roda’, radunava la migliore società milanese che ivi villeggiava: un cenacolo esclusivo animato da artisti, musicisti e letterati, tra i quali non poteva mancare il poeta genovese Felice Romani, il maggiore librettista dell’epoca, legato ormai al compositore da un duraturo e proficuo sodalizio che aveva già prodotto Il pirata (1827), La straniera e Zaira (1829), I Capuleti e i Montecchi (1830), e che produrrà ancora La sonnambula e Norma (1831) e Beatrice di Tenda (1833).
In questo clima di vacanza, di mondanità, ma anche di stimolante riflessione, Bellini con Romani e la Pasta (che ne doveva essere l’interprete) si dedica in bella intesa al progetto del futuro melodramma.
L’attenzione cade sul dramma in cinque atti Hernani ou l’honneur castillan (Ernani ovvero l’onore castigliano), che a Parigi – sin dalla prima turbolenta rappresentazione alla Comédie-Francaise, avvenuta giovedì 25 febbraio 1830 – aveva acceso enormi polemiche, deflagrate con violenza dal momento in cui nei versi alessandrini di Victor Hugo trasparente era l’atto d’accusa del Romanticismo nascente contro l’ancien régime. Una denuncia palese avverso ‘classicisti’ e ‘monarchici’ è invero la vicenda noir dell’eroe giovane e maledetto, costretto a lottare contro gli aristocratici viellards.
Ancora più esplicita è la provocatoria prefazione al testo, vero e proprio manifesto letterario dell’opposizione liberale. Nel sancire anzi un sacrosanto quanto ineludibile nesso tra arte e politica, l’autore afferma senza mezzi termini: la liberté littéraire est fille de la liberté politique. Hernani scatena così un vero e proprio putiferio, una tempestosa querelle tra l’opposizione classica e la gioventù romantica degli atelier, laddove le questioni estetiche si fondevano strettissimamente con quelle civili, sociali e politiche.
I disordini di piazza originati dalla pièce sono perciò il diretto e non casuale antecedente di quanto doveva accadere il 27 luglio, quando lungo le vie della capitale francese, per tre giorni e tre notti, si sollevano tumulti popolari che costringono il reazionario Carlo X ad abdicare in favore del moderato Luigi Filippo d’Orléans.
Insieme al furore della ‘Rivoluzione di Luglio’, l’eco della bataille di Hernani da Parigi dilaga in tutta Europa: ne restano affascinati anche Bellini e l’ambiente artistico e culturale in cui egli opera.
Nella prima decade di settembre, il compositore rientra definitivamente a Milano.
Da una lettera inviata all’amico torinese Augusto Lamperi, sappiamo che fino al 17 novembre il progetto di mettere in musica il dramma hughiano è ancora ben fermo, tanto è vero che Bellini lamenta di non aver ancora ricevuto i versi da Romani, ma il ‘suo’ poeta è impegnato anche nella stesura del libretto di Anna Bolena per Donizetti.
Purtroppo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la corrispondenza belliniana da quest’ultima lettera s’interrompe fino a quella fatidica del 3 gennaio 1831, in cui apprendiamo dallo stesso musicista il cambiamento di rotta da Ernani alla Sonnambula, della quale afferma di aver ‘principiato’ l’introduzione il giorno precedente.

L’incolmabile vuoto epistolare è fonte di reale difficoltà, in quanto non ci permette di ricostruire con esattezza sia la gestazione di Ernani, sia la causa che determinò il cambiamento del soggetto.
In mancanza di altre fonti è giocoforza rifarsi alla citata testimonianza dello stesso Bellini, il quale, a cosa fatta, scrive il 3 gennaio a Giovanni Battista Perucchini: “…Sapete che non scrivo più l’Ernani perché il soggetto doveva soffrire qualche modificazione per via della polizia, e quindi Romani per non compromettersi l’ha abbandonato, ed ora scrivo la Sonnambula ossia I due fidanzati svizzeri”.
Evidentemente la censura austriaca, trattandosi di un soggetto così turbolento, avrà posto o ventilato il veto al librettista (14 anni dopo, anche Verdi e Piave dovettero faticare non poco affinché la loro versione operistica del dramma francese potesse andare in scena alla Fenice di Venezia il 9 marzo 1844).
Dei superstiti abbozzi pervenutici (alcuni infatti sono andati dispersi), solo una parte risulta completa; molti sono redatti unicamente nella linea del canto, mentre qua e là si rinvengono soltanto schizzi strumentali.
Una dettagliata analisi di questi frammenti è descritta, con dovizia di particolari, dal maestro Franco Piva che ha curato fedelmente e intelligentemente la non facile realizzazione del lavoro di ricostruzione.
Domenico De Meo

I FRAMMENTI – I Frammenti dell’Ernani di Vincenzo Bellini, custoditi presso il Museo belliniano di Catania, constano di complessive 74 grandi pagine pentagrammate: la 40, la 68 e la 74 sono completamente vuote; la 69 e la 70 contengono indicazioni verbali e musicali delle quali risulta praticamente impossibile stabilire la provenienza, la collocazione e la destinazione; la pagina 14 contiene soltanto l’accordo conclusivo del crescendo delle ultime due battute di pag. 13; la pagina 34 presenta l’inizio (6 battute e un quarto, oltre la prima vuota) della parte dei soprani di un brano corale; la pagina 44, a parte la prima e l’ultima battuta, è tutta tagliata.
Le prime tre battute della pagina 1, secondo la numerazione attribuita, sono la conclusione di un brano o di un appunto precedente evidentemente perduto. Il primo frammento, per noi, inizia quindi alla quarta battuta della stessa pagina, dopo la doppia linea che chiude l’episodio non pervenuto.
L’organico e la disposizione degli strumenti, che rimangono sempre gli stessi quando l’orchestra è completa, si desumono dalle indicazioni successive; nell’ordine, dall’alto in basso: violini primi, violini secondi, viole, flauti (due righi), oboi (un rigo), clarinetti in Si b (un rigo), corni (due righi), trombe (un rigo), tromboni (due righi), fagotti (un rigo), timpani, voci, violoncelli, contrabbassi.
Si tratta di un Recitativo Obbligato, che precede il Duetto Ernani/Elvira (Frammento secondo). Le voci sono tre; in ordine di partitura: Ines (mezzosoprano), Elvira (soprano), Ernani (soprano).
La partitura del secondo Frammento non presenta particolari problemi di lettura: le due voci (Elvira, Ernani) e tutti gli strumenti, nell’ordine precisato precedentemente, sono indicati in modo inequivocabile. Alla pagina 10, attraverso i righi dell’orchestra, è scritto: “Lo strum.le come alle lettere a-d” (?). Nella prima parte del Frammento, però, non appare alcuna lettera: questo fatto, comunque, non crea problemi, dal momento che tutta la ‘risposta’ di Elvira è completamente ‘positiva’ e cioè identica alla ‘proposta’ di Ernani: la ricostruzione, quindi, delle parti strumentali diventa automatica.
Il terzo Frammento segue direttamente il secondo senza, sembra, alcuna soluzione di continuità. Alla pagina 25 è abbozzata (3 battute) una prima versione, tagliata, dell’episodio seguente con le parole “Chi sei tu? Che fai? Che…” e con l’inciso, poi sviluppato nell’ultima battuta della stessa pagina, affidato soltanto ai fagotti. Alla pagina 32 la Cadenza di Ernani termina su un nuovo Movimento (Più allegro), di cui, però, rimangono soltanto le prime due battute; alla pagina 33, infatti, comincia un breve episodio in Si b Maggiore (Recitativo), con i soli archi (quarto Frammento), che sembra non concluso ma che, d’altra parte, non si collega né alla pagina 34, dove appare, come abbiamo detto, l’inizio di un brano corale, né alla pagina successiva, dove il nuovo (?) brano è in Do Maggiore (quinto Frammento). Poiché fra il quarto e il quinto Frammento esiste una chiara affinità di carattere espressivo, è possibile formulare l’ipotesi, avvalorata anche dal fatto che all’inizio del quarto sono indicati gli stessi due personaggi che sono protagonisti del quinto, che il quarto sia un primo tentativo (non cancellato perché ritenuto comunque soddisfacente e forse mantenuto come una possibile riserva da utilizzare altrove) poi ripreso su basi diverse e portato a compimento nel quinto.
E’ abbastanza difficile anche soltanto descrivere il sesto Frammento: è il più lontano dal progetto iniziale e precede di poco la rinuncia. A parte la brevissima introduzione strumentale e qualche rado appunto successivo, sono rimaste soltanto le parti vocali. Senza contare le pagine vuote e le due ‘spurie’, consta di ben 33 fogli e il loro coordinamento, con un minimo di logica musicale complessiva, è risultato piuttosto complesso e delicato.
Il settimo Frammento (Allegro risoluto) prevede l’intera orchestra e i personaggi di Ines e Don Carlo: rimangono soltanto l’intervento dei contrabbassi e due piccoli incisi del flauto e dei violini primi. Nonostante questo vuoto, non si può non sottolineare il particolare interesse di questo breve appunto: se è da considerarsi normale la modulazione nei contrabbassi da Do Maggiore a La bemolle Maggiore, risultano abbastanza ‘strane’, essendo così isolate e scoperte, le note assegnate al flauto e ai violini primi e, in particolare, assumono dal punto di vista espressivo un colore e un sapore relativamente inusuali soprattutto se messe in relazione con le situazioni precedenti.
Dopo questo Allegro risoluto, Bellini prevedeva un Lento assai; ma a questo punto, evidentemente, l’interesse per questo soggetto è venuto meno definitivamente.

LA REVISIONE E L’INTERPRETAZIONE – Va innanzitutto precisato il fatto che, nonostante la situazione del manoscritto nella sua globalità e nei singoli frammenti potesse facilmente prestarsi a interventi di vario tipo, ho ritenuto imprescindibile rispettare integralmente il testo, in ogni suo dettaglio, per poterlo presentare e valorizzare nella sua interezza come un documento raro e preziosissimo. Proprio questo principio, tuttavia, mi ha creato in non pochi casi problemi abbastanza delicati e le soluzioni che non potevo non adottare hanno comportato e comportano specifiche responsabilità. Non si trattava, infatti, soltanto di ‘trascrivere’ correttamente, con rigorosi criteri filologici, un inedito: il compito era, in particolare, anche quello di far rivivere un manoscritto del tutto diverso da un ‘normale’ documento, trattandosi in questo caso niente di più di una serie di frammenti di un lavoro soltanto progettato, e anche parzialmente. E’ noto quanta responsabilità si deve assumere il revisore, dovendo rivisitare e restaurare un documento in vista della sua esecuzione o rappresentazione, quando si tratta di definire e interpretare situazioni incerte o incomplete o confuse; ma se il documento è completo, esiste nel documento stesso una logica complessiva, poetico-musicale-drammaturgica, che sicuramente può creare condizioni favorevoli per risolvere problemi altrimenti non facilmente definibili. Ma in questo caso il documento non ha alcuna compiutezza da nessun punto di vista e viene meno, quindi, anche quello che talvolta può diventare un punto di riferimento fondamentale.
Nel Recitativo che precede il Duetto (pp. 1-6) manca l’indicazione del Tempo (ma, data la relativa concitazione della situazione, è sembrato ovvio prevedere un Allegro) e mancano spesso le indicazioni dinamiche negli accordi che commentano il testo: l’attribuzione di un p o di un f all’uno o all’altro degli interventi strumentali ha costituito qualche volta un problema sia perché l’incompletezza del testo non consentiva con sufficiente sicurezza l’una o l’altra interpretazione, sia per il fatto che, in qualche caso, l’una e l’altra avrebbero avuto una valida giustificazione.
In questo primo frammento si è presentato anche un altro problema delicato: alla terza battuta di p. 4 Bellini ha scritto Lento assai; fino alla fine del Frammento, e cioè per 34 pagine, non viene indicata nessuna variazione di Tempo; trattandosi, però, di un Recitativo e dal momento che il testo nel corso di queste 34 battute presenta situazioni molto differenziate, non è pensabile che possa rimanere valida fino alla fine questa indicazione. Per definire le inevitabili variazioni di Tempo l’unico riferimento possibile non poteva che essere il testo.
Il secondo Frammento (Duetto Elvira-Ernani) non porta alcuna indicazione di Tempo; la decisione di stabilire un Largo è nata da alcune considerazioni concomitanti e complementari: il Tempo in 6/8, il Più mosso della seconda parte (p. 8) e il carattere espressivo dell’intero brano; il Più mosso, poi, (in una situazione espressiva come questa non può diventare ‘Allegro’), inteso come una relativa intensificazione della velocità del Tempo iniziale, determina inevitabilmente un precedente Tempo lento come riferimento.
Nell’ Allegro maestoso del terzo Frammento (b. 27, p. 26) non compare all’inizio alcuna indicazione dinamica; ma il pizzicato dei violoncelli e dei contrabbassi e, nel corso del brano, le indicazioni Solo (p. 29: bb. 44, 45, 49) e pp (b.35, p. 27; b. 39, p. 28), rendono obbligatoria per l’inizio la scelta di un colore tenue, anche se l’aggettivo maestoso potrebbe far sembrare coerente un colore più forte (ma credo si tratterebbe in questo caso di una interpretazione superficiale e retorica).
Come si è detto, è probabile che il quarto Frammento (Recitativo / Andante), di complessive 13 battute soltanto, sia un primo appunto non completo, ripreso, in modo non sostanzialmente diverso, sviluppato e completato nel Frammento successivo in un’altra tonalità, sempre comunque con lo stesso organico (2 voci, archi). Ho ritenuto in ogni caso riportare anche queste tredici battute perché, anche se fosse giusta la mia ipotesi, risulta comunque interessante mettere a confronto le due situazioni.
Il quinto Frammento è completo e chiaro; manca all’inizio l’indicazione del tempo, ma, coerentemente con l’ipotesi formulata in precedenza, ho posto Andante.
Le legature segnate qui e in altre pagine del manoscritto sono da intendere non tanto come arcate, ma come manifestazione di una intenzione espressiva che riguarda tutte le frasi coinvolte. La precisazione delle articolazioni costituisce, quindi, un problema assai delicato: nella attribuzione delle arcate ho tenuto conto esclusivamente dei comportamenti del discorso musicale e della loro funzione espressiva.
Su ciascuno degli accordi che accompagnano questo Recitativo, Bellini ha posto con chiarezza l’indicazione dinamica voluta; indicazione che, invece, manca negli episodi strumentali.
La conclusione di questo Frammento rimane sospesa: è da escludere, per motivi armonici e anche per il fatto che il testo non conclude, un collegamento diretto con l’inizio del Frammento sesto: ho preferito comunque lasciare le cose come si presentano nel manoscritto, e cioè senza soluzione sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista letterario.
Il sesto Frammento è il più problematico. Nell’impostazione della partitura sono indicati, oltre a tutti gli strumenti, Elvira, Ernani, Carlo; nelle pagine pervenute cantano soltanto Elvira e Carlo. Dalla pagina 37 alla pagina 39 Don Carlo esegue il primo Meco regna; segue una cadenza, affidata ai violini primi; riprende poi (pp. 42-44) una nuova versione del Meco regna, con varianti, come se fosse un Da capo oppure una seconda possibilità alternativa alla prima. Dopo una cadenza di Don Carlo e un breve intervento strumentale (l’una e l’altro tagliati), risponde Elvira con il primo Amo un altro, a cui segue l’inizio del concitato dialogo, poi interrotto, fra Elvira e Don Carlo. Alla pagina seguente si trova una cadenza simile a quella apparsa dopo il primo Meco regna, ma più corta e semplificata; dopo questa cadenza ritorna il Meco regna di Don Carlo in una versione, con varianti, quasi identica alla precedente; risponde di nuovo Elvira con un nuovo Amo un altro, con varianti rispetto al primo e con una cadenza conclusiva diversa; riprende, quindi, il dialogo concitato (Allegro agitato), che si conclude (Lento) con le due voci insieme.
Il primo problema nasce da questo dubbio: le due versioni di Meco regna e di Amo un altro sono alternative o complementari? Poiché non c’è alcun elemento oggettivo a favore dell’una o dell’altra possibilità, qualunque considerazione potrebbe essere sostenibile: ma quella che potrebbe eventualmente dimostrare l’alternatività comporterebbe automaticamente l’abbandono di una parte comunque importante del documento. Credo, dunque, che l’unica scelta oggettivamente valida sia stata quella di riportare il manoscritto nella sua interezza. In altri casi Bellini ha mostrato chiaramente il cambiamento dell’intenzione oppure ha lasciato il frammento incompiuto: qui non appare nessun pentimento, a meno che non si voglia intendere la ripetizione come un secondo tentativo destinato a sostituire il primo: ma in questo senso, ripeto, non appare alcuna indicazione. All’inizio di questo sesto Frammento non c’è alcuna indicazione di Tempo, ma sopra la seconda cadenza che precede la seconda versione del Meco regna è segnato And.te assai sost.to; poiché la seconda non è che una variante della prima, così come le due versioni di Elvira sono varianti di quelle di Don Carlo, non essendoci d’altra parte indicazioni diverse fino all’Allegro agitato, ho ritenuto giustificato attribuire all’intera prima parte l’Andante assai sostenuto indicato da Bellini.
Dopo l’Ouverture – nell’insieme molto compassata, un po’ rossiniana e abbastanza generica (sicuramente scritta prima dei Frammenti e quindi solo parzialmente aderente, anche per l’assenza di una visione completa dell’Opera) – si compie un viaggio, breve ma affascinante e intenso, in un mondo virtuale, sospeso nel vuoto, nel quale si leggono i ‘segni’ di un’idea drammaturgica e musicale che riflette senza mediazioni gli impulsi suggeriti dal testo. Se la pregnanza di questi ‘segni’ ci fa rimpiangere quello che manca, non possiamo non vibrare di commossa partecipazione per quello che ci resta.

Franco Piva

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