Baldassarre GALUPPI, IL MONDO ALLA ROVERSA
(revisione: FRANCO PIVA)
A) Il libretto goldoniano
Cortile spazioso, ornato di spoglie virili all’intorno… Termina il cortile con archi maestosi, oltre i quali vedesi la gran piazza, da dove entrano nel cortile sovra carro trionfale, tirato da varj uomini, Tullia, Cintia, Aurora, precedute da coro di donne, le quali portano seco loro delle catene e delle vittoriose insegne. Mentre si canta dal coro, gli uomini vengono incatenati.
Le tre donne prendono in esame le varie possibilità per tenere soggiogati gli uomini. Cintia propone il disprezzo, perché
Più sprezzanti le donne e più crudeli
Essi son più pazienti e più fedeli.
Aurora, invece, propone la lusinga:
Finger ognor d’amarli,
Accenderli ben bene a poco a poco,
E poi del loro amor prendersi gioco.
Tullia consiglia la prudenza; ma Cintia ribadisce con vivacità e decisione il suo punto di vista:
…io vuo’ costoro
Aspramente trattar: voglio vederli
Piangere, e sospirare,
Fremere, delirare;
Tullia, allora, propone di riunire il consiglio per stabilire delle leggi
…onde si renda
Impossibile all’uomo scuotere il giogo
Naturalmente il rapporto ‘alla roversa’ determina situazioni del tutto particolari, come quando, ad esempio, Graziosino entra in scena facendo la calza e dichiara ad Aurora:
Sì, cara, farò tutto,
Farò la cameriera,
Farò la cuciniera,
Farò tutte le cose più triviali;
Laverò le scodelle, e gli orinali.
Il secondo personaggio maschile è l’orgoglioso Giacinto:
…schiavo son io
di queste belle, è vero,
ma sovra il loro cor tutt’ho l’impero.
Il dialogo fra Cintia e Giacinto è piuttosto animato e vivace, perché nessuno dei due vuole cedere. Quando Giacinto minaccia di andarsene da un’altra, Cintia s’infuria e si dichiara innamorata; ma appena Giacinto crede di averla finalmente piegata, Cintia, prendendosene gioco, lo respinge, ribadendo il suo atteggiamento iniziale:
Se gli uomini sospirano,
che cosa importa a me?
Che pianghino, che crepino,
ma vuo’ che stiano lì…
Entra in scena, quindi, Rinaldino, che si affianca a Tullia e che si dichiara perfettamente soddisfatto della situazione.
Giacinto, schernito e umiliato, mette in atto la sua minaccia e dichiara il suo amore ad Aurora. Sopraggiunge Cintia che sorprende il ‘suo’ Giacinto in dolce colloquio con la rivale; diventa allora inevitabile lo scontro fra Aurora e Cintia e il conseguente imbarazzo di Giacinto, il quale, alle due donne che gli domandano
E ben che risolvete?
risponde
Mie belle, se volete,
Io mi dividerò.
Contente voi sarete,
Non dubitate, no.
Secondo l’iniziale progetto, viene riunito il consiglio per stabilire leggi e forma di governo. Dopo aver scelto la monarchia, Tullia suggerisce che ciascuna proponga se stessa: chi otterrà più consensi potrà governare a nome di tutte. Ma nessuna ottiene un solo voto.
Tullia commenta:
Per quello che si vede e si sente
Niuna donna acconsente
All’altra star soggetta;
a ogn’una piace il comandar sovrano,
e soggiogarle si procura invano.
Ciascuna delle candidate, allora, visto fallire il tentativo di conquistare ‘legalmente’ il potere, si ripropone di prenderlo con altri mezzi.
In un Giardino delizioso all riva del mare, il quale formando un seno nel lido, offre comodo sbarco ai piccoli legni, Rinaldino, Giacinto e Graziosino raccolgono fiori per le rispettive amate.
Arriva una barca carica di uomini che vengono subito aggregati, come schiavi d’amore, alla comunità. Uni di essi, Ferramonte, riesce a sottrarsi alla cattura e, sostenendo la superiorità degli uomini, incita Rinaldino alla rivolta.
Cintia, sempre decisa a governare comunque, pone a Giacinto questo dilemma: o uccidere tutte le rivali o essere da lei ucciso. Giacinto, per levarsi d’impiccio, sceglie la prima alternativa, ma quando sopragginge Aurora, che dovrebbe essere la sua prima vittima, non ha il coraggio di mantenere la promessa, cade ai suoi piedi e le confessa ogni cosa. Naturalmente Aurora si ripromette a sua volta di far uccidere Cintia e riesce a strappare al suo Graziosino una solenne promessa in tal senso.
Rinaldino, convinto da Ferramonte, riconosce la sua ‘debolezza’ e si dichiara pronto a riprendere il potere. Tullia, profondamente delusa per la gelosia e l’odio che le donne nutrono fra di loro, dichiara a Rinaldino che vuole essergli soggetta e che riaffida il governo agli uomini; poco dopo anche Aurora segue il suo esempio. Soltanto Cintia si aggrappa disperatamente alla speranza di poter dominare e, quando si accorge che è praticamente impossibile, la sua rabbia esplode violentemente:
Lupi, tigri, leoni,
Gattipardi, pantere, orsi e mastini
Mi sento a divorar negl’intestini.
Alla fine è costretta a rassegnarsi: la situazione, quindi, si capovolge e cioè diventa ‘normale’.
Il primo Atto può essere suddiviso in tre momenti distinti: all’inizio c’è la presentazione delle tre protagoniste; successivamente ad esse si aggiungono Rinadino, Giacinto e Graziosino; infine vengono approfonditi i rapporti che nascono in seguito ai diversi atteggiamenti dei singoli personaggi. Lo sviluppo narrativo, graduale e coerente, attribuisce al primo Atto il senso di un crescendo per il progressivo intensificarsi delle situazioni.
La struttura del secondo è simile; possono essere individuati, infatti, tre momenti distinti, sostanzialmente corrispondenti: all’inizio appaiono le tre donne con i loro particolari problemi, questa volta di carattere ‘politico’; vengono poi sviluppate le variee situazioni provocate dai rapporti ‘alla roversa’; infine vengono definiti i contrasti cui lo sviluppo di tali rapporti dà origine.
Esiste, quindi, fra il primo e il secondo Atto, una analogia abbastanza evidente, sia per l’ordine narrativo e rappresentativo sia per il ‘crescendo’, che è ottenuto anche nel secondo Atto con un graduale e sensibile accentuarsi delle tensioni.
Le scene del secondo Atto, poi, sono più vivaci e più complesse rispetto a quelle del primo, per cui si può parlare di un ‘crescendo’ globale ottenuto anche con l’introduzione di mezzi diversi. E il terzo Atto può essere considerato come la ‘naturale’ soluzione della tensione: le cose ritornano alla ‘normalità’ come dissonanze che risolvono.
Il libretto è dunque concepito secondo una logica strutturale equilibrata e funzionale: al di sotto dei giochi c’è uno scheletro chiaramente e armonicamente distribuito nella sua simmetrica articolazione. Si tratta, quindi, di un testo relativamente ‘impegnato’,
anche se va tenuto presente che l’entità dell’impegno deve essere misurata in rapporto non alle Commedie del Goldoni, come fa il Bollert, ma ai limiti della librettistica precedente e contemporanea. Da questo confronto, scrive Claudio Sartori,
il Goldoni uscirà con un merito in più al suo attivo: ne uscirà come il riformatore del teatro buffo musicale e come l’ispiratore, per lo meno, dell’opera buffa borghese veneziana.
Scrive Franco Fido: “ Con una quindicina di intermezzi e più di 50 drammi giocosi, Goldoni è stato uno dei più fecondi e certo il più influente librettista comico del ‘700.
Le date stesse della sua carriera in questo campo sono significative perché coincidono coi fasti dell’opera buffa nella sua stagione più felice: dai primi intermezzi La cantatrice (1729-1730) e La birba (1735), contemporanei ai trionfi napoletani di Hasse e Pergolesi, fino alla lunga e fruttuosa collaborazione col Galuppi, al successo romano, poi europeo, de La buona figliola, musicata dal Piccinni, agli ultimi stanchi libretti composti in Francia, come I volponi del 1777, quando ormai Cimarosa si avviava a diventare il più grande e il più ‘mozartiano’ dei maestri italiani”.
Quando scrivo per musica – afferma Carlo Goldoni – l’ultimo a cui io pensi sono io medesimo. Penso agli attori, al maestro di cappella moltissimo, penso al piacere degli uditori in teatro…”.
Goldoni mostra di essere perfettamente cosciente del fatto che questi suoi lavori possono essere valutati correttamente soltanto da chi tenga ben presente la loro finalità ultima: vanno, infatti, considerati non come pura letteratura ma come una delle componenti del teatro musicale in funzione della rappresentazione con musica.
Bisogna, poi, sottolineare il fatto che questi libretti, pur con tutti i loro limiti, costituiscono un fatto sostanzialmente nuovo rispetto alla librettistica contemporanea e immediatamente precedente dello stesso genere, così come le commedie goldoniane costituiscono un fatto nuovo rispetto all’impostazione e alla articolazione delle pièces teatrali precedenti: si può dire, infatti, che la riforma goldoniana sia stata realizzata, prima ancora che nelle commedie, nei libretti per musica.
Se è vero che l’importanza complessiva dei risultati non dipende singolarmente dal valore del poeta o da quello del musicista, perché ci possono essere pessimi libretti con musiche importanti e musiche pessime su importanti testi, è altrettanto vero che se un libretto non ha ‘né mezzo, né principio, né fine’, come scrive lo Scherillo a proposito di molti poeti della Scuola Napoletana, è molto difficile che possa uscire un buon lavoro sul piano drammaturgico e su quello musicale. L’opera, infatti, va considerata non come un assemblaggio di momenti staccati singolarmente più o meno felici ma nella sua globalità, nella sua articolazione complessiva; perché se la musica e la parola devono unirsi per dare origine a un fatto rappresentativo che abbia un senso, come può un lavoro musicale riuscire valido se il testo, e quindi la vicenda e i personaggi e le situazioni, risultano insignificanti, superficiali, vuoti, arruffati, approssimativi? Ci può essere magari un testo letterariamente brutto ma denso di allusioni, di significati, di suggerimenti, di suggestioni: e allora il musicista può far uscire da quel testo tutto quello che esso sottintende o lascia intravvedere; ma questo, almeno, ci deve essere (e alcuni musicisti, in verità, preferiscono libretti di questo tipo a quelli che dicono tutto e in modo formalmete perfetto). E’ vero che nel Settecento i compositori si adattavano a tutto pur di soddisfare nel miglior modo possibile le pressanti richieste del mercato; ma quando il compositore riusciva a realizzare un equilibrato compromesso fra la necessità di produrre comunque e molto e i fondamentali parametri di un solido professionismo, allora poteva uscire il lavoro omogenero e funzionale, sufficientemente impegnato e significativo. Ma occorreva, appunto, la convergenza di molteplici fattori, fra i quali uno dei fondamentali è certamente il testo. Perché non dimentichiamo che si parla di musica per il teatro: sulla scena ci sono dei cantanti in costume che si muovono in un certo ambiente e che rappresentano una qualche vicenda e la musica deve essere ‘giusta’ e cioè deve avere il giusto peso nel rapporto con gli altri aspetti della rappresentazione e deve avere una appropriata caratterizzazione espressiva. Si può anche valutare un testo soltanto dal punto di vista letterario, così come si può valutare la partitura composta per quel testo soltanto dal punto di vista musicale; se, però, un testo è nato per essere musicato e se è stato, quindi, pensato e costruito per questo scopo, sarà corretta la sua valutazione soltanto se fatta in questa prospettiva.
B) La partitura
La ricostruzione della partitura originale è stata da me effettuata collazionando due copie manoscritte dell’Opera: l’una, fortemente spuria, proveniente dalla Biblioteca Estense di Modena (303 pagine di un solo copista), l’altra dalla Biblioteca del Conservatorio di Bruxelles (405 pagine scritte da tre mani diverse).
La copia di Modena è stata verosimilmente preparata per la rappresentazione avvenuta in quella città, al teatro Rangoni, nel carnevale 1756: una versione assai semplificata (mancano le scene più complesse del secondo Atto) e evidentemente adattata ai gusti e alle possibilità dei solisti (cinque Arie, di cui non mi è stato possibile accertare la provenienza, non hanno alcuna relazione con il libretto)
Nel frontespizio del manoscritto di Bruxelles viene indicata una rappresentazione al S. Cassiano di Venezia (1752), che non mi risulta confermata da altre fonti: non è da escludere che il copista si riferisse alla Prima avvenuta proprio al S.Cassiano, ma nell’autunno 1750.
La partitura contiene:
l’ Ouverture (Allegro, Andante, Allegro);
14 Arie con Da capo: Fiero leon (Tullia), Atto I
Quegli occhietti (Aurora), Atto I
Quando gli augelli cantano (Graziosino), Atto I
In quel volto (Giacinto), Atto I
Se gli uomini sospirano (Cintia), Atto I
Cari lacci (Tullia), Atto I
Gioie care (Rinaldino), Atto I
Fra tutti gli affetti (Tullia), Atto II
Nocchier che s’abbandona (Rinaldino), Atto II
Che cosa son le donne (Cintia), Atto II
Al bello delle femmine (Giacinto), Atto II
Quando vien la mia nemica (Aurora), Atto II
Son di coraggio armato (Graziosino), Atto II
Chi troppo ad amor crede (Rinaldino), Atto II;
6 Arie senza Da capo: Madre natura (Giacinto), Atto I
Quando le donne parlano (Ferramonte), Atto II
Fino ch’io viva (Tullia), Atto III
Le donne col cervello (Ferramonte), Atto III
Che bel regnar (Cintia), Atto III
Giuro (Graziosino), Atto III;
1 Duetto: Eccomi al vostro piede (Cintia, Giacinto), Atto III;
3 Terzetti: Venite o ch’io vi faccio (Aurora, Cintia, Giacinto), Atto I
Queste rose porporine (Rinaldino, Giacinto, Graziosino), Atto II
A terra (Rinaldino, Giacinto, Graziosino), Atto II;
1 Quartetto: E’ questa la promessa (Aurora, Cintia, Giacinto, Graziosino), Atto II;
3 brevi interventi strumentali: Marcia (due oboi e due corni in scena), Atto II
Sinfonia (orchestra), Atto II
Marcia (dialogo fra strumenti in scena e orchestra),
Atto II;
4 brani corali: Presto, presto alla catena, ripetuto tre volte con varianti, Atto I e II
Libertà, libertà, ripetuto sei volte testualmente o con varianti, Atto II
Pietà, pietà di noi, ripetuto testualmente due volte e rimusicato a
Conclusione dell’Opera, Atto III.
I Recitativi sono tutti secchi. Vi sono tre situazioni particolari: una Arietta di Cintia
(Il capo mi frulla) all’interno del Recitativo Colui di Ferramonte (Atto III, Scena VI);
alcuni brevi interventi articolati del B.c. all’interno del Recitativo La vogliamo vedere (Atto II, Scena VIII); alcuni frammenti di Recitativo senza B.c. all’interno dell’Aria Giuro (Atto III, Scena VI).
L’organico vocale comprende: un soprano (Tullia), due mezzosoprani (Cintia, Aurora), due tenori (Rinaldino, Ferramonte), due baritoni (Giacinto, Graziosino); quello strumentale prevede, oltre agli archi e al clavicembalo, due oboi e due corni.
I due manoscritti sono particolarmente ricchi di indicazioni dinamiche: nella versione di Bruxelles ne ho rilevate più di 900 in 320 pagine di partitura. Il fatto assume grande rilevanza (l’Opera è del 1750) e contrasta clamorosamente con l’opinione di coloro che sostengono una sorta di asetticità della musica di questo secolo; oltretutto, sarebbe scorretto anche dal punto di vista strettamente filologico non attribuire a tutte queste indicazioni dinamiche, precise e inequivocabili (coincidono puntualmente nelle due versioni), il giusto rilievo sul piano esecutivo e interpretativo.
Le Arie, generalmente articolate secondo il rapporto ‘proposta / risposta’ in raggruppamenti, talvolta ‘irregolari’, per frasi e periodi, non mostrano sensibili condizionamenti da precisi schemi fissi: sono di volta in volta inventate, in relazione alla tensione rappresentativa ed espressiva del testo, con una varietà e una ricchezza non tanto comuni.
Ogni intervento, immediatamente efficace anche in rapporto alla essenziale semplicità dell’impostazione, è caratterizzato in modo deciso: la scelta del metro, del ritmo, del movimento, degli elementi tematici, degli aspetti dinamici, del tipo di vocalità e della articolazione del discorso è direttamente e intimamente connessa con la natura del personaggio e con la particolare situazione scenica. Quello che scrive Paolo Sartori (I temi del Galuppi sono vivi, parlanti, individuali, caratteristici. Preferisce egli i ritmi corti, spezzati…, le forme più irregolari metriche e ritmiche e le accentuazioni delle parole più strane. E’ tutta una novità e una ricchezza ritmica però che segue e sottolinea il testo nelle sue minime sfumature. E’ dunque una differenziazione quella dell’arte galuppiana che dipende dal testo musicato, che è strettamente legata al significato delle parole, che nasce dalla preoccupazione unica di non sovrastare alla parola, di non guastarne lo spirito, di lasciarla chiara e comprensibile al di sopra della musica, di sottolinearne semmai l’arguzia. E’ insomma un continuo commento) è sostanzialmente da condividere, ma, almeno in questo caso, soltanto in parte; ne Il mondo alla roversa, infatti, la musica è molto di più di un semplice ‘commento’: è invenzione viva e reale, naturalmente e necessariamente legata in modo profondo al testo, ma con un acuto e puntuale spirito di ricerca che, ben oltre il ‘commento’, determina situazioni musicalmente e strutturalmente compiute con intrinseci valori autonomi e con una coerente e omogenea caratterizzazione espressiva.