Gaetano DONIZETTI, ELVIDA (revisione: Franco Piva)

DONIZETTI, ELVIDA

Un’eroina da resistenza e riconquista è la protagonista dell’Elvida di Donizetti, opera giovanile breve e bella finalmente riportata alla luce.
Non è vero che l’opera seria del Settecento fosse d’argomento soprattutto mitologico, e a dimostrarlo sono i prediletti testi letterari del Metastasio che a personaggi come Agamennone, Ulisse, Medea e Ifigenia preferiscono Demetrio, Ciro, Semiramide, Nitteti; né è del tutto vero che il melodramma dell’Ottocento prediligesse le antiche storie europee d’ambiente cavalleresco, visto il successo ivi incontrato da drammaturghi come Shakespeare, Schiller e Hugo. E se l’esotismo, sia tematico che musicale, doveva trionfare nel tardo Ottocento, dopo l’Africaine di Meyerbeer e l’Aida di Verdi con i capolavori di Saint-Saens, Massenet, Puccini e così via, non per questo era ignorato prima: i citati eroi metastasi ani sono principi e regine di Persia, Siria, Assiria, Egitto; le turcherie abbondano nei libretti di Gluck, Mozart, Cherubini, Rossini; e il Ricciardo e Zoraide di Rossini, la Zaira di Bellini, la Schiava in Bagdad di Pacini, la Schiava saracena di Mercadante sono solo alcuni episodi della straordinaria fortuna goduta dai soggetti esotici dalla metà dl XVIII alla metà del XIX secolo. Spesso era qualche protagonista europeo che si recava in Oriente o in Africa, spesso erano eserciti o gruppi di arabi o normanni che assediavano qualche città d’Europa, e molto spesso erano i mori della lunghissima dominazione spagnola e gli spagnoli dell’epica riconquista a battagliare senza tregua ed esclusione di colpi, oviamente con il sale e il pepe di un rapporto amoroso fra una damigella bianca e un guerriero d’altra razza (o anche il contrario, o anche un amore tra famiglie arabe nemiche).
In un panorama del genere, un operista fecondo come Gaetano Donizetti (1797-1848) non poté che farsi valere da par suo: nell’abbondante settantina di opere di un catalogo dall’estensione all’incirca venticinquennale la Zoraide di Granata data al 1822, l’Alahor in Granata e l’Elvida al ’26, la Sancia di Castiglia al ’32, il Dom Sebastien de Portugal al 1843 (per tacere della Alina di Golconda e il Paria dell’India o di altri esotismi, slavi, nordici e occidentali).
Il 1832 è l’anno benedetto dell’Elisir d’amore, il 1843 è l’anno provvido del Don Pasquale, e fu nel loro intervallo che Donizetti produsse opere come Lucrezia Borgia, Lucia di Lammermoor, Roberto Devereux, Poliuto, La favorita, Linda di Chamounix, capolavori dovuti a un’arte già del tutto personale e una tecnica ormai affrancata dagli imperanti modelli rossiniani. In precedenza, mentre il collega e coetaneo Bellini, più astuto e selettivo, riusciva a raggiungere l’affrancamento con il Pirata del ’27, Donizetti lavorava con tenacia ed entusiasmo, con disponibilità e versatilità, con tanta devozione per la monumentale drammaturgia rossiniana quanta attenzione per le esigenze, anzi meglio per le convenienze e inconvenienze teatrali (comer avrebbe intitolato una sua opera napoletana di poco successiva a quella milanese del collega) imperanti anche senza Rossini. Il 6 luglio del 1826, per esempio, si doveva celebrare il compleanno di Maria Isabella di Spagna, moglie di Francesco I di Napoli, e il S. Carlo di Napoli intese provvedere non con una grande opera seria in tre atti ma sia con un’opera che con un ballo: siccome questo fu L’ira di Achille, lungo “ballo eroico-mitologico in sei atti”, quella dovette essere un’opera breve, un atto unico, e fu l’Elvida di Giovanni Schmidt, il “poeta de’ reali teatri” che alle spalle aveva parecchi libretti e un libretto un po’ speciale come l’Elisabetta regina d’Inghilterra che undici anni prima aveva segnato l’esordio e il successo napoletano di Rossini (speciale, quel testo, perché veloce, sintetico, senza troppe arie, didascalie, frange perditempo, e presagio di altre brevità come appunto questa). In quel di Napoli, nel giugno del 1826 Donizetti mise in scena il comico Don Gregorio, rifacimento e ampliamento del romano Ajo nell’imbarazzo, al S. Carlo e al Nuovo l’Alahor in Granata nato a Palermo nel gennaio; e fece le prove di Elvida, sempre con “quattrini pochi, fatica assai, pazienza”, sicuro che “se onore avrò molto, sarò ben pagato”.
Ancora dall’epistolario: “Lunedì proveremo l’Elvida in un atto. Non è gran cosa a dir la verità, ma se li colgo colla cavatina di Rubini ed il quartetto mi basta. Già in sere di gala poco vi si bada” (a Mayr il 15 giugno). “Ai 6 di luglio a S. Carlo ho dato l’opera in un atto l’Elvida, e fui applaudito dal re, dalla regina e la seconda sera chiamato fuori con Rubini, la Lalande e tutti gli altri (al padre il 21 luglio). L’opera, che ebbe tre repliche e fruttò all’autore 200 ducati in quanto nuova (contro i 40 del Don Gregorio e lo splendido nulla di Alahor in Granata), fu recensita dal Giornale del Regno delle Due Sicilie: un “argomento sfornito di ogni storico fondamento per un dramma in musica brevissimo” era particolarmente difficile, ma l’anziano e buon poeta vi aveva saputo mettere in rilievo “quella nobiltà ed altezza d’animo che ha sempre contraddistinto gli spagnuoli, e ch’eccelsamente risplende nell’Augusta Nostra Regina congiunta a tante altre belle virtù che l’adornano”; e la musica, pur senza comprendere “alcun pezzo che ci avesse o fortemente sorpreso, o profondamente commosso” era risultata “sparsa di graziosi motivi e condotta con quella regolarità che caratterizza la scuola del Mayr”, in particolare con la punta inventiva dell’aria della primadonna. La Tipogafia Flautina stampò il libretto, secondo l’uso; e nessuna edizione ebbe la musica, che secondo l’uso rimase manoscritta (la biblioteca di S. Pietro a Majella conserva la partitura autografa e una copia d’altra mano).
Dramma per musica in un atto, Elvida è una breve “azione drammatica” che proprio “non ha nulla di storico” come precisa l’”argomento” del libretto, e proprio in questa dichiarazione negativa segnala qualche suo elemento specifico: intanto non si accontenta di romanzare la storia, come per esempio aveva fatto la Clemenza di Tito di Mozart e avrebbe fatto l’Ernani di Verdi, e poi non si ispira ad alcun dramma, romanzetto, testo altrui e precedente, inventando tutto, quasi quasi preferendo il verosimile al vero (ma con tali formule di altezza manzoniana e verdiana la cautela non è mai troppa); e questo, forse, non tanto per esibire qualche forma di orgoglio creativo quanto per aver via libera a sceneggiare una vicenda semplice, diretta, disadorna, insomma un torso di dramma piuttosto che un dramma articolato e allargato in parti ed episodi. Nuda e cruda, la vicenda ambientata nel Medioevo spagnolo prevede un tiranno che tiene prigioniera la sua vittima femminile, nonostante l’amore a lei rivolto dal figlio di lui, e un eroe ricambiato che libera la fidanzata e perdona gli altri, all’interno di una rocca moresca poi espugnata dagli spagnoli, con appena altri due personaggi e un cambio di scena (in fondo, quasi come un prologo vocale e appena scenico anteposto a un’azione, a un grande ballo comprensivo di molti atti, personaggi, luoghi). Fedele alla consegna, Donizetti non compose nemmeno una sinfonia o un preludio e accettò la parsimonia del recitativo; e nel manoscritto non lasciò documento dell’aria del tenore, quella destinata a Rubini con la quale contava di piacere al pubblico, perché non ebbe tempo di comporla e quindi ne cassò l’occasione oppure, forse, perché seguendo la prassi della parodia, dell’autoimprestito e del “baule”, non compose nulla di nuovo e lasciò che il divo Rubini interpolasse un’aria di suo gradimento (certo anche sua, sua dll’autore). Non pertanto il ventinovenne musicista si consegnò anima e corpo alla maniera, al rossinismo, allo stile del suo maestro Mayr; e di fatto schizzò una partiturina limpida e accurata, sempre consona alla personalità dei contanti e mai dimentica del bello scrivere, della giusta condotta delle parti, del canto classico, dell’invenzione melodica.
Nel regno di Granata (ovvero Granada), presumibilmente negli ultimi tempi della cosiddetta Reconquista (terminata nel 1492, lo stesso anno della scoperta dell’America), la piazzaforte raccoglie parecchi mori frettolosi, che come sempre raccontano un po’ l’antefatto. Dopo cinque battute di Larghetto, scattando in Allegro il coro maschile canta “Tutto cede al nemico feroce”, con un gioco polifonico già evidente fra i primi e i secondi tenori e un Do min. che vorrà segnalare il pericolo, la minaccia dell’esercito spagnolo “che veloce alle mura s’avanza”. Mentre loro si disperdono, ecco Amur (basso) e Zeidar (contralto), il tiranno-padre e il figlio-amante: al posto delle due prevedibili cavatine consecutive la brevità ha consigliato un duetto, nel corso del quale i due personaggi si illustrano nella massima schiettezza ed elementarità. “Non più: dicesti assai” esclama Amur, senz’ombra di recitativo e avviandosi declamatorio sopra un’orchestra punteggiata di semicrome alla maniera rossiniana; Zeidar prosegue il Moderato in Fa magg. Ma muta sensibilmente il disegno vocale (con un trillo su “rigor” dove il padre aveva trillato su “amor”, in sede finale di quartina); il raccordo è veloce (già in odore di cabaletta) e la cabaletta è lesta, Allegro in Fa magg. Squillante e sillabico sui versi “Omai tant’orgoglio” e “Ti sento mio core” che il testo prevede simultanei ma la musica rende tali solo alla fine (a mo’ di stretta vera e propria). Amur vuole punire la prigioniera amata da Zeidar, la quale compare in scena con una scorta di donne e canta una cavatina, l’unica aria dell’opera (così come sta) e giustamente assegnata alla protagonista titolare dell’opera: neanche il soprano esordisce con recitativo, e attacca subito “A che mi vuoi? Che brami?”, un Maestoso in La magg. Zeppo di scalette e notine che accoglie qualche intervento delle altre due voci (i cosiddetti pertichini) e del coro; a seguire forse il poeta immaginava un terzettino con coro, come immaginava che la quartina di sortita fosse un semplice recitativo accompagnato, ma il musicista optò per una cabaletta, e questa è l’Allegro “Le smanie io sento in petto” ancora in La mgg. Sillabico o bisillabico che s’agghinda del temibile trillo “cresciuto” (7 trilli consecutivi per semitoni sulla parola “tremar”) e solo più tardi s’impingua delle altre voci soliste e coriste. La scena, più o meno definibile come aria lievitata ad assieme o anche terzetto privilegiante una voce, conferma l’aperta ostilità fra un tiranno sordo al figlio stesso e una vittima tanto energica da ignorare lo sfogo della cantabilità. Il nemico incombe, Amur corre ai ripari, Zeidar resta e intreccia un duetto con l’amata Elvida: la bramata cantabilità, eccola nel Larghetto del contralto, “Se geme a’ tuoi lai…”, un vago 6/8 d’attacco acefalo che scende, sale, riscende languidamente e quando passa al soprano, “Mia colpa, tel giuro”, allarga gli intervalli comprendendo un salto d’ottava; il tempo di mezzo prosegue il cantabile quasi senza soluzione, e la stretta, l’Allegro “Sì grave è il tormento” che conferma la tonalità di Mi bem. Magg., estende l’identità del testo a un canto parallelo, alla distanza regolare di una terza, senza virtuosismi ma con una bella impennata al Si bem. Acuto del soprano (sulla dominante, verso la fine).
Finita un’ipotetica prima parte, una seconda parte s’apre sulla piazza. “Le catapulte finiscono di smantellare le mura”, i mori se la danno a gambe, gli spagnoli irrompono, il coro dovrebbe cantare “Cinto di nuovi allori”; anche il tenore Alfonso dovrebbe cantare, la cavatina “Cara immagin del mio bene” presente nel libretto, ma nella partitura passa subito a informarsi della condizione di Elvida (nel corso di un recitativo breve ma pregnante, anche per la comprimaria Zulma). L’”orrida spelonca” della scena che segue è la prigione di Elvida: sola e disperata, introdotta da un preludio a mo’ di concertino brillante, la donna si lamenta esprimendosi in pretto stile recitativo-arioso e finendo con un vocalizzo sulla parola “speranza” che in un’opera lunga presupporrebbe un’aria ma qui dà spazio alle voci di Amur e Zeidar pronte a un terzetto. “Invan, superba, invano” comincia il basso in Allegro non molto, passeggiando nella maniera tipica di Luigi Lablache, “Quel ferro tuo m’uccida” prosegue il soprano nella maniera declamatoria tipica di Henriette Méric-Lalande, “Amato genitore” continua il contralto in tutta la pastosa centralità della sua voce (affidata a Brigida Lorenzani), senza che mai le tre voci s’uniscano; e dxopo, durante la stretta che nella simultaneità delle voci ha sempre un’arma efficace, Elvida e Zeidar cantano insieme e parallelamente (a una terza) mentre Amur grida e protesta per conto suo. Qualche semplice battuta d’orchestra sottintende l’irruzione di Alfonso coi suoi soldati (senz’affatto l’”improvviso strepito” suggerito dal libretto) e il terzetto diventa quartetto con Amur che minaccia di ferire Elvida e Alfonso che lo prega. Dopo un momenrto di stupore, il tenore attacca “Deh! Ti placa…Amur mi rendi”, un bell’Adagio in La bem. Magg e 12/8 che non tarda ad alzare la voce (destinata all’ugola acutissima di Giambattista Rubini) e quando raggiunge le altre voci provvede a differenziarsi adeguatamente, comunque accoppiando i due aspri contendenti (tenore e basso) e gemellando i due personaggi al momento passivi (soprano e contralto). A liberare Elvida chi sarà, se non Zeidar? Detto fatto, Amur viene catturato e il bel quartetto ha modo di passare alla stretta: vigoroso Allegro in Fa magg. E tempo tagliato, L’empio cor che chiudi in petto” è il canto iniziale, unisono, ascendente e trocaico dei due amanti che si ritrovano, cui poi s’aggiunge quello dei due nemici fino a un’efficace serie di battute di quarti e pause di quarto e a una svettante volatina del soprano protagonista.
Come in ofgni opera seria di concezione classica o classicheggiante (cioè non ancora romantica), il lieto fine è presto (ma nel 1826 era presto anche il Pirata di Bellini che avrebbe sancito la regolarità romantica del finale funesto, poi adottato da Donizetti con piena soddisfazione). Scongiurato il danno la prigione non è più il contenitore del massimo rischio, come avviene nel sommo Fidelio di Beethoven e in tante opere serie o semiserie del primo Ottocento, ma la scena non cambia: l’essenzialità di Schmidt non ne allontana l’azione e prescrive un duetto con coro, un duetto perché un’aria avrebbe squilibrato assai l’opera breve e il coro perché la letizia finale doveva sempre essere drammaticamente completa e musicalmente ben sonora. “Il cielo, in pria sdegnato / si mostra alfin placato”, cantano Alfonso ed Elvida in Moderato e Sol magg., scattanti di ritmi puntati, acuto lui e centro-grave lei, entrambi impegnati in deliziosi gruppetti “sui vanni dell’amor” e in terzine su terzine, accortamente ma parcamente cadenzati dal coro giubilante. E finalmente l’animosa, vibrante, romantica Elvida smette di essere un’eroina della resistenza e della riconquista spagnola per tornare a esprimersi con i giusti mezzi dello stile classico, del belcanto, della melodia, del Donizetti più limpido e naturale e mayriano.
Piero Miolij

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